Martedì scorso, quando in Italia erano le 19, un gruppo di persone provenienti da diverse parti del mondo ha inforcato degli occhiali/visori per la realtà virtuale e per un’ora ha parlato di morte nel metaverso. Accade da mesi. Accade ogni settimana. Uomini e donne che sono state segnate da un lutto recente o passato, o che stanno affrontando la malattia terminale di un proprio caro, si trovano a condividere pensieri ed emozioni molto intimi in uno spazio virtuale. Per qualcuno è solo una “moda”, per altri persino una follia. Qualunque sia la ragione e qualunque possa essere la nostra opinione sul metaverso (cioè, sui mondi digitali basati sulla realtà virtuale) non si può rimanere indifferenti davanti a questa iniziativa. Si chiama Death Q&A (cioè, domande e risposte sulla morte), ed è - come ha ben raccontato Technology Review, la rivista del MIT (l’Istituto di tecnologia del Massachusetts, una delle più importanti università di ricerca del mondo) - «uno spazio con una combinazione unica di anonimato e solidarietà». Il tema è ampio. E tocca diversi aspetti, a partire dal fatto che delle persone in carne ed ossa per confrontarsi su questioni così delicate usino un avatar, cioè un alter ego digitale. Ripeto: quello che a molti di noi può sembrare persino una follia, per chi vi partecipa è un fatto reale. Reale e utile. Un’ora la settimana che attende con ansia, alla quale non rinuncerebbe per niente al mondo e che crea tra i partecipanti legami importanti. Anche se nella percezione comune gli occhiali/visori per la realtà virtuale sono strumenti per giocare, in realtà servono anche ad altro. Per esempio, servono a malati bloccati in un letto o a persone impossibilitate a uscire di casa per visitare (virtualmente) luoghi da sogno, per fare una passeggiata (virtuale) in riva al mare o in montagna o anche per cantare in un locale (sempre virtuale) di karaoke.
Come ci ricorda la giornalista Hana Kiros, «le persone che partecipano agli incontri di realtà virtuale come Death Q&A stanno di fatto testando un nuovo tipo di comunità digitale a 360°: molto più coinvolgente di un incontro su Zoom o di una discussione sui forum online e sui social». Chi ha partecipato a questi momenti di confronto sulla morte racconta «che davvero senti le altre persone come fossero vicine a te. Attraverso le cuffie riesci a cogliere i suoni più intimi attorno a te; persino i respiri e i sussurri degli altri, fino ad arrivare a “sentire” le loro emozioni». Uno dei creatori di questi incontri Death Q&A, il 73enne Tom Nickel, con un passato accanto ai malati terminali, ha spiegato: «Queste relazioni che creiamo nella realtà virtuale possono diventare molto intime, profonde e delicate».
Gli incontri online si svolgono davanti alla ricostruzione digitale di un tempio buddista, con Tom che sembra vestire i panni di un monaco o di un insegnante di Dharma, che si occuperà della recitazione dei Sutra del funerale tibetano. Quanto in questi incontri si parli anche di religione, di preghiera e di fede è difficile dirlo. Una cosa però è certa: questi momenti virtuali vanno a colmare un bisogno molto reale: superare la solitudine, il dolore e la paura della morte nell’anonimato ma sentendosi al tempo stesso parte di un gruppo. Meno il mondo reale se ne occuperà e più quello virtuale colmerà il vuoto a modo suo. Pensiamoci.
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