Non andiamo a credere che la preghiera sia un cammino lineare: la vita stessa è piena di alti e bassi. Chiunque coniughi il verbo pregare sa che esso include un passaggio purgativo. La preghiera non è un momento in cui riesco a liberarmi e fuggire. È invece quell'istante in cui lo Spirito si unisce alla mia debolezza e mi dà forza perché io possa abbracciare la ferita stessa, cioè accettare quello che mi schiaccia, che è più grande di me e che non riesco a spiegare, ciò che si abbatte su di me senza che io possa farci niente. La maggior parte della nostra preghiera, non illudiamoci, è vuoto e silenzio. Basta leggere gli scritti spirituali di santa Teresa di Gesù Bambino o, più vicina a noi nel tempo, di santa Teresa di Calcutta. La prima testimoniava che per anni e anni la preghiera le lasciava in bocca un gusto di paglia secca. La seconda racconta, nelle lettere ai suoi confessori, l'aridità e l'esperienza di solitudine che l'hanno sempre accompagnata. Può sembrare un paradosso, ma la preghiera non è meno vitale quando tocchiamo il silenzio di Dio, quando i nostri piedi toccano, in certo modo, il lembo della sua assenza: molte volte sono questi i momenti in cui la vita spirituale si intensifica.