In mezzo alle tante vicende che scuotono il nostro Paese, in mezzo alle innumerevoli strategie di distrazione di massa, in mezzo ai tweet del Ministro degli Interni sempre attento al tema di giornata in cima alla classifica dei trend topic (ecco perché possiamo conoscere il suo autorevole parere sulla canzone che avrebbe dovuto vincere il Festival di Sanremo, il suo apprezzamento per l'Isola dei famosi o per il Commissario Montalbano: si chiama presidio del territorio, anche quello virtuale), in mezzo agli strafalcioni di tanti esponenti del nostro governo, ha ottenuto meno risalto la veemente protesta dei produttori di latte in Sardegna. I pastori sardi esprimono il loro malcontento per i prezzi, troppo bassi perfino per coprire i costi di produzione. La loro protesta si è manifestata in un modo estremamente forte e impattante sull'opinione pubblica, versando fiumi di latte in moltissime strade della Sardegna. La protesta è sacrosanta, ma il metodo, come sottolineato anche dalla Conferenza episcopale sarda, «fa piangere il cuore». Vedere scorrere sull'asfalto migliaia di litri di un alimento così prezioso (perché non donarlo, per esempio?) è senza dubbio segnale di un malessere da prendere molto sul serio e che, per trovare un ulteriore detonatore, ha fatto sì che un gruppo di allevatori si sia presentato davanti al centro sportivo di Assemini, il luogo dove si allena la squadra del Cagliari. I manifestanti hanno aspettato i calciatori rossoblù con una richiesta molto chiara: non partire per Milano e far annullare la gara di campionato di domenica sera contro il Milan. Il direttore generale, Mario Passetti, ha incontrato i rappresentati dei produttori e, con pacatezza, li ha convinti che una sconfitta a tavolino del Cagliari non avrebbe migliorato la situazione. Sta di fatto che l'istanza di solidarietà ha trovato una forma: è stato chiesto ad alcuni calciatori di rovesciare, simbolicamente, qualche bidone di latte. L'hanno fatto, eseguendo gli ordini. L'hanno fatto, tuttavia, con scritta in faccia una certa indifferenza o, forse, non conoscenza del significato di quel gesto, o addirittura paura. Un'immagine strana, poi seguita da una fotografia scattata sul prato di San Siro, dove la squadra intera ha indossato una t-shirt bianca con la scritta: «Solidarietà ai pastori sardi».
Lo sport, nella fattispecie il calcio, è un amplificatore di attenzioni, un megafono al quale si affidano messaggi. Quel megafono, tuttavia, non sempre ha le batterie cariche, non sempre risponde con la velocità che servirebbe alle sollecitazioni della società civile. Se si pensa a quanto lo sport, per esempio negli Stati Uniti, abbia sostenuto battaglie di civiltà, il confronto con il nostro Paese è impietoso. Recentemente, nel football americano, lo kneeling (atleti che ascoltano l'inno in ginocchio) contro le brutalità delle forze di polizia nei confronti dei cittadini afroamericani, e prima l'impegno di Kareem Abdul Jabbar, Arthur Ashe, Muhammad Alì, Tommie Smith e John Carlos, sono esempi altissimi. Se pensiamo al calcio si possono citare Humberto Caszely, il bomber cileno che rifiutò di stringere la mano al dittatore Pinochet, e poi Socrates, Vicente Del Bosque, Lilian Thuram, Damiano Tommasi, Demetrio Albertini, tutti atleti che hanno dimostrato attenzione al mondo intorno al campo di calcio. So bene che c'è chi sostiene che lo sport debba restare fuori da certe dinamiche, ed è evidente che io non la pensi così. Lo sport è un pezzo fondamentale di società, e chi vive di sport ritengo abbia il dovere di esprimersi. Come hanno fatto Claudio Marchisio – di lui si è già parlato in questa rubrica –, che ha fatto sentire la sua solidarietà ai produttori sardi da San Pietroburgo, e Salvatore Sirigu, portiere del Torino, nato a Nuoro. Peccato che siano ancora pochi gli sportivi così, in un momento in cui sembra che manchi un po' di coraggio nello schierarsi. E dire che ce ne sarebbe tanto bisogno.