Quando la poesia entra nel regno luminoso dell'anima
Cerchiamo di capire dalla poesia eponima: «Da quando sono tornato, le bestie / hanno un passo malcerto ed un segreto, / il petto chiude regni senza fine / in cui nessuno entra e io ci scrivo / a notte i conti della vita grande». Fermiamoci qui. Si parte da un ritorno, dunque una svolta, forse un bilancio. E c'è una sintonia con gli animali, tema da memorizzare. Ma i regni? Sono regni senza fine in cui nessuno entra, chiusi nel petto del poeta che vi attinge, di notte, per fare i conti con la vita.
Siamo al cuore del fare poetico, quando il poeta, ungarettianamente «docile fibra dell'universo», rivive in sé mondi, “regni”, facendosene portavoce per chi lo vuol sentire. E subito è la sfida del tempo: «Non chiedermi di cose senza peso, / già dietro questa macina va il tempo / in un tondo che smette di girare / se ne scendi». Nessuna astrattezza, nessun platonismo: in pochi versi di straordinaria concentrazione, il peso della storia, della vita («macina») ingloba il tempo in soggettiva, perché il tempo è dentro di noi, il tempo siamo noi finché lo vogliamo («se ne scendi»). E qui viene la risorsa, l'arma, la forza del poeta: «Si attacca alla parola / chi non ha altro, si perde nel vuoto / il desiderio, sempre più spugnoso». Il poeta è inerme, dispone solo di parole, sfumano le utopie, si afferra a un quotidiano che s'intuirà, lungo tutto il libro, castamente coniugale (questo è rivoluzionario): «Le tue mani sono di cera d'api, / tengono il mondo come un miele buono / se uno accetta di perdersi con te».
Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) insegna Filologia della letteratura italiana all'Università per stranieri di Perugia; ha curato edizioni critiche di poeti trecenteschi e un commento al Ninfale fiesolano di Boccaccio; inoltre ha firmato una delle migliori antologie di poeti del secondo Novecento, La poesia italiana dal 1960 a oggi (Rizzoli, 2005 e 2012). Piccini è tutt'altro che ingenuo: si è formato sui classici e conosce bene il lavoro dei colleghi, anche attraverso l'esercizio critico su La Lettura, Famiglia cristiana, Poesia, L'Indice dei libri del mese. E la sua poesia si presenta qui come “tradizionale” nel senso che l'uso magistrale dell'endecasillabo gli consente di immergersi nell'onda incessante della lingua italiana il cui metronomo, costitutivamente, è, appunto, l'endecasillabo. È il verso a cui tutti i grandi poeti italiani si affidano, magari per contaminarlo, torcerlo, scansarlo. Piccini lo usa con superiore naturalezza, allo stato puro, senza grimaldelli. Nella Nota introduttiva, Antonio Prete accenna a Luzi (poeta che non amo) e in parte può stare. Ma preferisco un accostamento con la pittura di Gaetano Previati, per quelle luci che trascolorano in simbolismo il quotidiano, in quell'alone di malinconia che è forse gloria.
Ma come, un pittore del primo Novecento per un poeta d'oggi? Certo, perché la pittura è quella di sempre da Giotto a Rembrandt, Tiziano, Gericault, De Chirico, Hopper; come la musica è quella di sempre, da Pergolesi a Beethoven, a Bellini, Cherubini, Puccini, e resiste all'oltraggioso terrorismo di registi come Damiano Michieletto o la pessima Emma Dante.
La lingua italiana viene da molto lontano, la sua onda spumeggia sugli scogli (futuristi, neoavanguardia, con i loro meriti, ma che nessuno legge), levigandoli, e procede, immensa, al suo altrove. Piccini, in quell'onda si trova perfettamente a suo agio, e consegna, a chi sa leggere adagio, i suoi “regni” di scandalosa semplicità: «Dove ti celi, Tu, mentre pensiamo / a questa nostra identica fortuna? / Sembra tacere la volta infinta / in cui stendi e confondi la tua quiete».