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Quando la poesia entra nel regno luminoso dell'anima

Cesare Cavalleri mercoledì 26 aprile 2017
Ma di quali Regni sta parlando Daniele Piccini nella sua quinta raccolta poetica? (Manni, pagine 112, euro 14). La parola dà il titolo, dunque è chiave; sta nella prima poesia che fa sezione a sé, e ricompare solo in fondo, a pagin 97.
Cerchiamo di capire dalla poesia eponima: «Da quando sono tornato, le bestie / hanno un passo malcerto ed un segreto, / il petto chiude regni senza fine / in cui nessuno entra e io ci scrivo / a notte i conti della vita grande». Fermiamoci qui. Si parte da un ritorno, dunque una svolta, forse un bilancio. E c'è una sintonia con gli animali, tema da memorizzare. Ma i regni? Sono regni senza fine in cui nessuno entra, chiusi nel petto del poeta che vi attinge, di notte, per fare i conti con la vita.
Siamo al cuore del fare poetico, quando il poeta, ungarettianamente «docile fibra dell'universo», rivive in sé mondi, “regni”, facendosene portavoce per chi lo vuol sentire. E subito è la sfida del tempo: «Non chiedermi di cose senza peso, / già dietro questa macina va il tempo / in un tondo che smette di girare / se ne scendi». Nessuna astrattezza, nessun platonismo: in pochi versi di straordinaria concentrazione, il peso della storia, della vita («macina») ingloba il tempo in soggettiva, perché il tempo è dentro di noi, il tempo siamo noi finché lo vogliamo («se ne scendi»). E qui viene la risorsa, l'arma, la forza del poeta: «Si attacca alla parola / chi non ha altro, si perde nel vuoto / il desiderio, sempre più spugnoso». Il poeta è inerme, dispone solo di parole, sfumano le utopie, si afferra a un quotidiano che s'intuirà, lungo tutto il libro, castamente coniugale (questo è rivoluzionario): «Le tue mani sono di cera d'api, / tengono il mondo come un miele buono / se uno accetta di perdersi con te».
Daniele Piccini (Città di Castello, 1972) insegna Filologia della letteratura italiana all'Università per stranieri di Perugia; ha curato edizioni critiche di poeti trecenteschi e un commento al Ninfale fiesolano di Boccaccio; inoltre ha firmato una delle migliori antologie di poeti del secondo Novecento, La poesia italiana dal 1960 a oggi (Rizzoli, 2005 e 2012). Piccini è tutt'altro che ingenuo: si è formato sui classici e conosce bene il lavoro dei colleghi, anche attraverso l'esercizio critico su La Lettura, Famiglia cristiana, Poesia, L'Indice dei libri del mese. E la sua poesia si presenta qui come “tradizionale” nel senso che l'uso magistrale dell'endecasillabo gli consente di immergersi nell'onda incessante della lingua italiana il cui metronomo, costitutivamente, è, appunto, l'endecasillabo. È il verso a cui tutti i grandi poeti italiani si affidano, magari per contaminarlo, torcerlo, scansarlo. Piccini lo usa con superiore naturalezza, allo stato puro, senza grimaldelli. Nella Nota introduttiva, Antonio Prete accenna a Luzi (poeta che non amo) e in parte può stare. Ma preferisco un accostamento con la pittura di Gaetano Previati, per quelle luci che trascolorano in simbolismo il quotidiano, in quell'alone di malinconia che è forse gloria.
Ma come, un pittore del primo Novecento per un poeta d'oggi? Certo, perché la pittura è quella di sempre da Giotto a Rembrandt, Tiziano, Gericault, De Chirico, Hopper; come la musica è quella di sempre, da Pergolesi a Beethoven, a Bellini, Cherubini, Puccini, e resiste all'oltraggioso terrorismo di registi come Damiano Michieletto o la pessima Emma Dante.
La lingua italiana viene da molto lontano, la sua onda spumeggia sugli scogli (futuristi, neoavanguardia, con i loro meriti, ma che nessuno legge), levigandoli, e procede, immensa, al suo altrove. Piccini, in quell'onda si trova perfettamente a suo agio, e consegna, a chi sa leggere adagio, i suoi “regni” di scandalosa semplicità: «Dove ti celi, Tu, mentre pensiamo / a questa nostra identica fortuna? / Sembra tacere la volta infinta / in cui stendi e confondi la tua quiete».