Quando la cinofilia è maestra di vita
Berselli ha una scrittura vaporosa e intelligente, inevitabilmente un po' all'Arbasino, ma senza birignao, che per il birignao basta e avanza la Valentina Cortese. Dunque questa Liù, una labrador nera irrompe nella famiglia Berselli (Edmondo e Marzia, senza figli) e ne sconvolge abitudini e ritmi, ma non in quanto cane «quasi umano», tutt'altro: Liù è un cane-cane, felice di esserlo, e in quanto cane rende addirittura più umani i suoi padroni: «Allora il principio più chiaro», scrive Berselli, «che si manifesta non appena il rapporto con Liù è diventato sereno e ricco di consonanti affetti, è il seguente: un po' alla volta io comincio lentamente, quasi insensibilmente, ad amare tutti gli esseri viventi. Lo so, l'ho detta grossa. Una bestialità. Mi vengono sentimenti affettuosi anche verso gli umani, mannaggia al malaugurio. Ma soprattutto per gli animali, le bestie di ogni razza».
Di capitolo in capitolo, l'autore, che ha letto tutti i libri, parafrasa Wilfredo Pareto e Max Weber, Zygmunt Bauman e Lévi-Strauss e li reinterpreta in applicazione non solo canina, e sempre in dimensione narrativa: «Il cane è un racconto, e volete allora che non siamo capaci di gestire una storia?».
Aneddoti e citazioni folgoranti si susseguono di pagina in pagina e il backstage finale, che ha la funzione delle note, rivela, commenta e amplifica le fonti in un sovrappiù di divertimento. Irresistibile, nel capitolo «Volevo un cane scomodo», la feroce demitizzazione dell'«intellettuale scomodo»: ce n'è per tutti, per Pasolini e per Sciascia, per Paolo Volponi che, costretto a forza a pronunciare un pistolotto in favore della candidatura senatoriale di Umberto Agnelli nella Democrazia cristiana, è colto da malore per due volte non riuscendo, ma non riuscendo proprio, a proferire le due consonanti unite nella sigla Dc. Sublime, inoltre, «come esempio di altissima scomodità critica, ma di somma eleganza, la lezione magistrale di Luchino Visconti, che fu accusato dai reazionari di insopportabile decadentismo borghese per aver licenziato due camerieri, colpevoli di aver dimenticato di pettinare i suoi due gatti siamesi».
Il finale, prevede la convocazione di un vastissimo gruppo di amici e conoscenti per un'eccezionale festa di compleanno di Marzia a Folgaria. Ci sono, fra i moltissimi altri, «l'ulivista Gad Lerner, il sempre più felpato Ferruccio de Bortoli, l'informatissimo Pier Luigi Vercesi, il contrappuntista Riccardo Chiaberge, e, naturalmente, l'ermeneuta della modernità politica Maria Latella, che forse fu all'origine di qualche sisma matrimoniale laggiù nella campagna brianzola fra Arcore e Macherio». E ancora, Lorenzo Ornaghi «che per me è una specie di fratello maggiore», e, fra i mondadoriani, «non deve mancare Andrea Cane, dato che, con quel nome, vorrei vedere», e «infiliamoci anche il Gran Cacicco, Gian Arturo Ferrari, con la sua sposa», e così via.
Può sembrare un gran girotondo felliniano, ed è la riscoperta del piacere di stare bene insieme, di trascorrere una serata in allegria conviviale, che si sa giù come andrà a finire: «Parlando male di tutti, dell'ultimo romanzo, dell'ultimo reportage, dell'ultimo commento, dell'ultimo programma, dell'ultimo film, delle ultime canzoni, dell'ultimo progetto politico». Già, perché «in completa assenza di programmi ideologici e di progetti politici», il girotondo felliniano assomiglia troppo alla riunione di intellettuali delusi immortalati nella Terrazza di Ettore Scola con la memorabile battuta: «La Rivoluzione non la fa chi dovrebbe, perché la dovrebbe fare il cinema?».