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Quando i bambini ci insegnano come si fa a pregare

Cesare Cavalleri mercoledì 1 luglio 2009
I gozos sono canti popolari sardi, generalmente in lode alla Madonna, composti «da strofe di sei versi, solitamente ottonari, cui si aggiungono altri due versi sempre uguali, a mo' di ritornello. La prima e ultima strofa " apertura e chiusura della composizione " sono formate da quattro versi soltanto, gli ultimi dei quali sono ripetuti sia all'inizio che alla fine». Questa, secondo gli studiosi " fra i quali Clemente Caria " «è la forma classica originaria dei gosos che si riallaccia alla forma epica del Rinascimento letterario italiano». Etimologicamente, goso deriva da gaudium (come i misteri gaudiosi), forse con un passaggio dallo spagnolo, tanto presente in Sardegna. Apprendo queste informazioni da un bel libretto di Maria Teresa Brayda Sanna e Raimondo Sanna, Itinerari mariani in Sardegna (Rotundo editore) che da tempo volevo segnalare perché amo la pubblicistica che con appassionata erudizione recupera tradizioni locali che compongono il sostrato culturale che costituisce l'identità di un popolo. Con brevi note storiche, il libro traccia un percorso che tocca i principali santuari mariani della Sardegna, cominciando, naturalmente, dalla cagliaritana Nostra Signora di Bonaria, patrona speciale di tutta la Sardegna, e protettrice dei naviganti. La statua che si venera sull'altare maggiore giunse miracolosamente in una cassa scampata al naufragio di un veliero spagnolo nel 1370: all'apertura della cassa apparve una splendida statua della Vergine, con il Bambino sul braccio sinistro e, nella mano destra, addirittura una candela accesa. Il goggius che ne racconta la storia comincia con la strofa che riportiamo in traduzione: «Salve Regina venuta / in una cassa dal mare / gioia nostra singolare / di Bonaria. Ave Maria». Non si finirebbe più di citare, mentre si sfogliano le belle immagini a colori, ma mi piace riportare, dall'affettuoso libretto, un pensiero di Paolo VI che introduce a un altro testo di Maria Teresa Brayda Sanna, I piccoli vedono il Cielo (Abbà editore). Nel discorso all'udienza dell'11 agosto 1976, Paolo VI domandava: «Mamma, le insegnate ai vostri bambini le preghiere del cristiano? Li preparate, in consonanza coi sacerdoti, i vostri figli ai sacramenti della prima età: Confessione, Comunione, Cresima? Li abituate, se ammalati, a pensare a Cristo sofferente? A invocare l'aiuto della Madonna e dei santi? Lo dite il Rosario in famiglia?». La citazione è appropriata perché il piccolo libro consta di sei lettere indirizzate ai nipotini Virgi e Kicco. La "zia" racconta ai due bimbi la nascita di Gesù, e par di sentire la sua voce, perfettamente adeguata alla sensibilità dei piccoli, mentre parla dell'asinello Moretto, dei Magi, e si arrende all'impegnativa domanda di Virgi sul numero esatto di ali degli angioletti: «Due per volare e due di riserva?». Nell'ultima letterina, la zia racconta un episodio tenerissimo. Due gemellini somigliantissimi, di seconda elementare, un giorno durante un giretto per negozi erano entrati in chiesa per salutare Gesù: «Dopo aver detto insieme una preghiera " che è uno dei modi per salutarLo " quando già erano vicini alla porta uno dei due bambini è tornato indietro di corsa, si è fermato in mezzo al corridoio e sottovoce ha sussurrato alcune parole, poi è tornato dalla mamma. "Cosa hai detto?". "Gli ho detto che " io " sono Luca!"». Meravigliosa trepidazione di un bambino che vuole presentarsi ed essere riconosciuto personalmente da Gesù, senza confusione col fratello. Di certo Gesù, che l'aveva identificato fin da subito, avrà sorriso, e quello è proprio il modo giusto per insegnare ai bambini a pregare, che non consiste nel recitare delle formule, ma nel parlare direttamente con Gesù, con la Madonna, con i santi. Un insegnamento che vale anche per i bambini che non hanno una zia come Maria Teresa Brayda Sanna, e vale pure per gli adulti, perché non si finisce mai di imparare a pregare.