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Quando commuoversi, se ogni dolore è diverso

Cesare Cavalleri mercoledì 8 febbraio 2012
Io sono uno che si commuove facilmente, chi mi conosce lo sa. Direi sinceramente che la commozione è il mio stato d'animo abituale perché quello che capita agli altri lo sento come mio e quindi soffro o mi rallegro anche per i dolori e le gioie altrui.
In questi giorni non riesco a levarmi il pensiero di quel padre che ha gettato nel Tevere il figlio di sedici mesi. Non riesco a cancellare l'immagine mentale di quel volo di un bambino giù dal ponte, un bambino piccolo che piangeva, hanno detto i due o tre che passavano di lì. A pensarci mi viene da piangere. Il bambino, lo so, adesso, sta godendo le gioie che gli sono state precluse in vita, anzi, infinitamente superiori a tutte le gioie di qualunque vita, ma quel pianto, quel volo, quanto dolore per un bambino che arriva in Cielo. Pietà anche per quel padre che per sempre vorrà riavvolgere il nastro della sua vita fino a un momento prima di quel gesto che gli ha rovinato la vita, e anche per lui quanto dolore ogni volta che ripenserà a quella nottata maledetta.
Con questo stato d'animo ho incominciato a leggere Zigulì, di Massimiliano Verga (Mondadori, pp. 188, euro 16,50), e ho smesso solo quando sono arrivato all'ultima pagina. Massimiliano Verga è un professore di 42 anni che insegna Sociologia del diritto all'Università di Milano-Bicocca, e ha tre figli: Jacopo, classe 2002; Moreno, classe 2003; Cosimo, classe 2007. Moreno, poco dopo la nascita, è diventato gravemente disabile: ha il cervello grande come una caramella, una Zigulì, appunto; ha due bellissimi occhi, ma è cieco ed epilettico. Il libro raccoglie gli appunti, i pensieri di un padre che vive con un figlio handicappato: note brevi, talora brevissime, senza lamenti e anche con ironia, ma con un amore che fa tutt'uno col dolore. Verga parla come i suoi allievi, e le espressioni volgari che usa sono pienamente funzionali, come l'interiezione del capitano De Falco quando ha ingiunto al comandante Schettino di tornare a bordo sulla Costa-Concordia che stava naufragando.
È il racconto di un padre che vive con un figlio di otto anni, handicappato. Moreno ha anche una madre, naturalmente, ma il padre non vuole coinvolgere la moglie, che vive in un'altra casa, forse per proteggere gli altri due figli, nel gomitolo delle sue emozioni di padre. Ed è una scelta rispettosa, affabile.
Apprendiamo così che cosa significa accudire in tutto, proprio in tutto, un bambino disabile che non comunica in nessun modo, indecifrabile mistero. Il padre deve fare proprio tutto: alimentarlo, pulirlo, vestirlo, portarlo ai giardini sopportando gli sguardi di disagio degli altri genitori, non solo dei genitori con i figli sani, ma anche dei genitori di handicappati, perché ogni figlio è fatto a modo suo, e ogni dolore è diverso.
In questi appunti di vita c'è anche la rabbia, la ribellione, la tentazione, subito vinta, di gesti estremi. E c'è tanto amore, la tenerezza di un padre che è felice quando vede Moreno che ride, senza che né lui né il figlio sappia il perché.
Massimiliano Verga dice di non essere credente, e ciò dimostra ulteriormente la naturalità dell'amore umano, che implica comunque la relazione con Dio, perché l'uomo è stato creato a sua immagine e somiglianza, e quando fa il bene è perché quell'immagine affiora. Leggiamo: «Dio. Crederci potrebbe certamente aiutarmi. Avrei delle risposte che ancora non riesco a trovare. O, comunque, avrei l'illusione di averle trovate. Ogni tanto ci parlo lo stesso, con Lui. E questo la dice lunga sulla mia razionalità. Ho perfino la presunzione di pensare che, se esistesse, potrei quasi essergli simpatico». Ma certo, simpaticissimo. E non credo sia frequente un libro che fa desiderare ai lettori di abbracciare l'autore. A ciglio asciutto o, nel mio caso, con gli occhi umidi.