In giorni nei quali quasi tutto sembra inaspettatamente cambiato nella nostra vita sociale a causa di un virus, ho sottomano uno di quei libri che fino a un mese fa erano assolutamente tempestivi, mentre ora potrebbero ingiustamente sembrare superati. Si tratta del saggio di Francesco Tuccari La rivolta della società. L’Italia dal 1989 a oggi (Laterza, pagine 122, euro 15,00), il cui proposito è ricostruire il “groviglio delle cause e degli effetti” di quella grande trasformazione avvenuta nel nostro Paese negli ultimi trent’anni. Tuccari è uno storico e un politologo e benché mostri una precisa diffidenza nei confronti di tutti i fenomeni di “rivolta della società” etichettabili come populismi e sovranismi, tesse tuttavia la sua tela esplicativa partendo da molto lontano. Usa a questo scopo un’opera famosa di storia economico–sociale come La grande trasformazione di Karl Polanyi pubblicata nel lontano 1944, che ha però suscitato negli studiosi un nuovo interesse tra gli anni Novanta e il Duemila. Tema di fondo è la distruttività che il capitalismo, il liberismo e la logica di mercato hanno mostrato ripetutamente di esercitare sui legami e gli equilibri sociali. Non posso certo riassumere in poche righe né Tuccari né tantomeno Polanyi. Da lettore profano benché interessato noto soltanto che purtroppo le riflessioni più approfondite degli studiosi stentano sempre più a influenzare i comportamenti dei politici. La tendenza delle élite dirigenti e dei leader politici a trascurare o ignorare la ricerca sociale risale in Italia agli anni ottanta: ne fu un chiaro sintomo l’impazienza piuttosto brutale con cui l’allora leader socialista Bettino Craxi si liberò di autorevoli intellettuali che erano un patrimonio storico del suo partito: da Bobbio a Sylos Labini e Giorgio Ruffolo. In realtà il capitalismo, anche solo per esistere, non ha mai potuto ubbidire all’utopia o bugia liberista di un “libero mercato” che crea più benessere e progresso quanto meno ubbidisce a vincoli politici e morali e quanto meno dipende dall’intervento dello Stato. Ma cosa c’è fra lo Stato e il mercato se non la società, il popolo dei cittadini, un popolo variamente stratificato e diviso in classi e sottoclassi, la cui vita e le cui attività non sono esclusivamente economiche o dominate dall’economia? La rivolta populista e sovranista della società è arrivata in Italia, a spese dei partiti tradizionali, quando a ribellarsi più che una società civile era una specie di non–società “postmoderna”, caotica, atomizzata, fatta di individui neppure liberamente individualisti, ma sempre più colonizzati e eterodiretti dalle televisioni commerciali e da internet. Le tristi conclusioni di Tuccari sono che senza un’Europa davvero capace di essere unita (per ora un’altra specie di utopia) vivremo in una “duplice maledizione”, quella degli egoismi nazionali e quella di una tecnocrazia il cui linguaggio è fatto solo di cifre.