Intorno la giornata era lucente e limpida. Sulla parete c’era invece una nuvola di condensa che l’avvolgeva a lenzuolo, dalla base in cima. Procurava penombra e l’umido di una cantina. Ovunque intorno c’era estate piena, solo sulla parete era l’autunno. Poche centinaia di metri verticali separavano un paio di scalatori da chi passeggiava sui sentieri al sole. Avevo l’impressione di stare in raccoglimento dentro un’improvvisata chiesa, per cupola una nuvola. Disponevamo di un oscuro spazio minerale, con la punteggiatura di qualche fiore ardito, artigliato sul niente. L’acustica era perfetta, le poche sillabe scambiate a distanza tra il primo di cordata e il suo secondo, bastava sussurrarle. Poi sulle ghiaie in discesa siamo rientrati dentro la stagione e il giorno. Ho avuto il pensiero di essere di ritorno da una distanza e da un tempo remoto. Così ho ricordato. Quando attraversavo la frontiera italiana rientrando dai giri di distribuzione dentro la guerra di Bosnia. Mi avveniva l’impatto passando dai giorni in mezzo a un popolo a brandelli, alla prima città italiana coi negozi aperti, i cittadini intenti ai loro impegni. Bastava qualche centinaio di metri orizzontali, di là di un posto di frontiera. Mi capitava a ogni rientro lo sbandamento di chi da una tempesta in mare sbarca al molo.
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