Lucidissimo, in largo anticipo sullo tsunami di comunicazione “social” di cui quasi presentiva l’esplosione (certi grandi scrittori sanno essere profetici), Italo Calvino si interrogava preoccupato circa il futuro della fantasia. Che ne sarà dell’immaginazione, si chiedeva, di quelle potenti visioni interiori, matrici di ogni forma di creatività e di pura invenzione, se il tempo collettivo sarà man mano più assediato da un’orda di immagini già confezionate, onnipervasive, insidiosamente pronte a tutto raffigurare, che vuol dire anche tutto “pre/figurare”? Dare forma a paesaggi e mondi interi, potendo farlo nella libertà di figurarseli in absentia, gli pareva già allora attività impedita, appestata dai “detriti” dell’eccessivo potere delle immagini. E cosa direbbe oggi, di questa gigantesca abboffata visiva nella quale galleggiamo, storditi da visioni ininterrotte che quasi sempre detengono un potere aggiunto rispetto alle realtà di cui sono riproduzione. Per quello anche pulsa tanto urgente la domanda di Calvino sullo statuto dell’immaginazione. Come mantenere quella sana igiene dello sguardo necessaria alla fantasia per fare il proprio lavoro? Al pari del guardare l’orizzonte rispetto al rischio di perdere diottrie, che stia nel cercare il vuoto di visioni il rimedio, la speranza.
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