Avete mai conosciuto dei pubblicitari? È impossibile che chi ha a che fare con l'editoria di libri riviste giornali non ne abbia conosciuto qualcuno. C'è una differenza tra chi sta nella pubblicità (e soprattutto chi ne inventa) e chi si occupa di altri rami della comunicazione? Il dilemma si è posto molti anni fa, per esempio quando Vance Packard, sociologo americano, dette alle stampe nel 1957 un suo celebre saggio-inchiesta, I persuasori occulti (Einaudi 1958, tante volte ristampato), dimostrando la capacità dell'economia di influenzare e manipolare i gusti del pubblico, i loro acquisti. Pochi anni dopo Jean-Luc Godard, nel film Il maschio e la femmina (1966) trovò il modo di inserire nel montaggio una didascalia presto famosa: «La pubblicità è il fascismo del nostro tempo». Niente scampo per i pubblicitari, si sarebbe detto, eppure quel mestiere si diffuse a dismisura e diventò uno dei più importanti, molto ambito da tanti giovani anche perché esaltato da molti studiosi (per esempio nel momento di massima diffusione dei Dams) che vi vedevano il massimo della modernità. La verità sta nel mezzo? Si direbbe proprio di no, perché la pubblicità ha continuato a magnificare merci e prodotti d'ogni tipo, anche nefasti, e non solo prodotti anche idee, opinioni, modi di vivere. Immagini colorate ed eleganti, e spesso, molto spesso, corpi maschili e femminili di forte carica erotica, a volte persino corpi infantili. Per vendere qualcosa, bisogna dare un'idea di bellezza, armonia, libertà, forza, e che comprando e consumando quella tal cosa ci si distingue, ci si eleva, si è qualcuno. Non sono discorsi nuovi, ma spesso si resta sbalorditi, perfino a volte scandalizzati, sfogliando i magazine e i quotidiani che di pubblicità vivono, osservando quanti seminudi femminili o maschili esse propongano, quanti meravigliosi paesaggi di sogno su cui sfrecciano libere e gioconde vetture di forme elegantissime, come se le città non esistessero e l'auto non fosse un prodotto eminentemente inquinante, e metropolitano. Non c'è nulla di sacro, per la pubblicità (ricordate la santa polemica di Pasolini sui jeans di marca Jesus, tanti anni fa?), e se esiste un codice sembra assai facile raggirarlo. Pensavo a tutto questo vedendo una nuova pubblicità che evoca uno slogan degli anni Sessanta, «Make love not war», e che dice «Make love not walls». Uno slogan sacrosanto, ma che non è inventato da un movimento bensì da pubblicitari che vogliono venderci qualcosa, e dubito fortemente che possa trattarsi di qualcosa di socialmente utile. Con tutta la comprensione per certi pubblicitari che, come si dice, devono pur vivere anche loro, continuo a pensare che avesse ragione Jean-Luc Godard a diffidare della pubblicità e, nel dubbio, di ogni pubblicità.