Il cantiere navale di Monfalcone è la stiva della nuova Europa. Non tanto per le gigantesche navi da crociera che escono da lì, bensì per la gente impegnata a costruirle: lavoratori provenienti da ogni parte del mondo, diversi con moglie e figli. Camminando fra un magazzino e l'altro, diretto verso i moli dove le imbarcazioni stanno per salpare, ne interpello qualcuno: mi sorprende la gentilezza con la quale rispondono. Il bengalese addetto ai tubi idraulici ha il sorriso delle grandi occasioni anche se mi spiega soltanto come funziona il muletto: impossibile non andare con la mente a Libertino Faussone, detto Tino, operaio specializzato nel montaggio di ponti, tralicci e gru, indimenticabile protagonista di La chiave a stella, il grande romanzo di Primo Levi uscito proprio quarant'anni fa a Torino. A quel tempo gli immigrati eravamo noi. La passione partecipativa è rimasta uguale. Avanzo sulla banchina della Fincantieri e incrocio Mahamud, nigeriano addetto all'arredamento delle cabine di prua: ancora non parla bene italiano anche se ormai vive qui da circa vent'anni. Poi ci sono serbi, croati, senegalesi, indiani. È una babele multietnica di caschetti arancioni. Mi piazzo in mezzo a loro e, dentro di me, provo a fare l'appello. Avanti ragazzi, dite il vostro nome, che poi io lo scrivo.