È uno dei personaggi più famosi del teatro di tutti i tempi e non ha nemmeno bisogno di entrare in scena. Al posto suo lo fa il teschio che, in un momento cruciale di Amleto di William Shakespeare, un becchino tira fuori dalla terra per scavare la fossa in cui sarà sepolta Ofelia. Appena tornato in Danimarca e ancora ignaro del suicidio dell’amata, il principe indugia nel cimitero, domandandosi a chi appartengano i resti di volta in volta riesumati. Esperti del mestiere, i becchini gli rivelano finalmente l’identità di un cadavere: è Yorick, il buffone del re. E al «povero Yorick» Amleto dedica un epitaffio commosso e, come al solito, ambiguo. L’affetto per l’antico compagno di giochi («m’ha portato in spalla mille volte!») è insidiato dal ribrezzo che emana da quella testa spolpata e ghignante. «Dove sono ora i tuoi sberleffi? Le tue piroette? Le tue canzoni? I tuoi sprazzi d’allegria che si diffondevano a scoppi sulle tavolate?», incalza Amleto riprendendo un tema classico della poesia medievale, quello dell’ubi sunt? (“dove sono?”), utilizzato anche da François Villon. Yorick si guarda bene dal rispondere. Se le altre comparse possono limitarsi a essere, per lui è sufficiente essere stato e non essere più, come nel monologo che il principe ha pronunciato un paio di atti prima.
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