All'invadenza degli smartphones nelle nostre vite si dedicano oceani di inchiostro. Spesso a partire da un paradosso, dall'ostinazione di voler continuare a chiamare telefono ciò che da tempo non lo è più. Con il cellulare, infatti, si scrive, si messaggia, si fotografa, si condividono video, ma non si telefona (quasi) mai. Parlo delle conversazioni in diretta, voce a voce, quelle che iniziano con il classico «ciao, come stai?» o, se sei torinese, «com'è?». Per verificarlo basta una domanda: ieri quante persone avete sentito? Siamo così disabituati a telefonare che prima di farlo mandiamo un messaggio: posso chiamarti? L'uso classico dell'apparecchio è riservato ai numeri interni sul lavoro o ai pochi minuti serali con mamma o nonno anziano. Altrimenti, se per sbaglio parte una chiamata, blocchiamo subito, e ci sentiamo in dovere di chiedere scusa. È come se parlarsi fosse entrare in un'intimità per pochi, in un antiquariato di lusso, in un terreno privato da difendere con pin e password. O forse è solo timidezza, è la paura di far scoprire attraverso la voce, che è unica come le impronte digitali, come stiamo davvero. Ma l'autodifesa non vale la gioia di vincerla. Perché vuoi mettere la differenza tra sentire un “ti voglio bene” prima di dormire e un “tvb” letto sul display?