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Politologia? Un ritorno alla visione sociologica

Alfonso Berardinelli venerdì 25 gennaio 2019
Proprio oggi che alla politica non si fa che guardare ossessivamente, con ansia, indignazione o sconforto, si ha anche l'impressione e a volte la certezza che la politica, quella dei politici, delle loro élite o caste, conti sempre meno. La società e la cultura si aspettano troppo dalla politica. La sua azione appare spesso una non-azione, più capace di creare problemi che di risolverli. I poteri decisionali non si sa più dove siano dislocati, quale sia il centro o vertice da cui emanano. E la lotta fra partiti al governo e all'opposizione, che ragionano senza tregua in termini di competizione elettorale, peggiora le cose. Ci si delegittima a vicenda come «nemici della democrazia» o «nemici del popolo», come corrotti o come incapaci, cosa questa che di per sé danneggia la dialettica democratica perché abbassa la fiducia nel funzionamento della democrazia. Questo in pratica. In teoria, si nota già da qualche decennio che fissare troppo lo sguardo sulla politica, sulla macchina politica e sui suoi sistemi, ha incrementato un modo “politologico” di vedere le cose. È vero che in origine la politologia era un ramo della sociologia, il ramo che si occupava delle istituzioni e dell'agire sociale la cui funzione è compiere scelte, prendere decisioni e orientare la collettività verso scopi condivisi. Ma gradualmente è avvenuto che la scienza politica abbia messo in ombra la scienza sociale producendo politici che sanno maneggiare norme, regolamenti, procedure, burocrazie ma ignorano sempre più la società e fanno perfino fatica a “immaginarla”, a immaginare come e di che cosa vive la maggioranza dei cittadini. Ora Il Saggiatore ha ristampato un classico della sociologia che è anche un capolavoro di scrittura saggistica, L'immaginazione sociologica di Charles Wright Mills, pubblicato negli Stati Uniti nel 1959 e tradotto in Italia nel 1962. Ricordo che un geniale critico letterario come Giacomo Debenedetti, nelle lezioni sul romanzo del Novecento che teneva all'università di Roma, usò proprio questo libro per spiegare la situazione psicologica e sociale dell'individuo contemporaneo e quindi l'identità dei personaggi di tipo nuovo che abitano nel romanzo novecentesco, determinandone procedimenti narrativi e struttura. Wright Mills, consapevole dell'involuzione tecnicistica e quantitativa della sociologia americana, sempre più denutrita quanto a idee e teorie, rivalutò la tradizione classica che va da Marx, Weber, Durkheim a Veblen, Pareto, Mosca, Simmel, Mannheim… I due pericoli opposti individuati da Wright Mills erano da un lato l'“empirismo astratto”, che finisce in statistiche elettorali, e dall'altro la teorizzazione generale usata per legittimare un regime politico e che sfocia in «giustificazione ideologica dell'autorità». I sociologi attuali corrono questi pericoli, mentre i classici fondatori della sociologia evitavano «ogni schema rigido di procedura cercando di sviluppare e impiegare l'immaginazione sociologica». È quest'ultima, mi pare, che oggi è quasi assente.