Un Cicerone poco più che ventenne, alla domanda se sia maggiore il bene o il male che alla repubblica ha arrecato l'uso della parola ("Dell'invenzione" 1, 1), risponde che quando essa è proprietà degli eloquentissimi homines, coloro che schierano la sapienza a fianco della parola, allora la repubblica vede la luce ed è salva; quando, invece, essa è proprietà dei disertissimi homines, vale a dire i più bravi parlatori, gli abili comunicatori, i demagoghi, allora la repubblica conosce la notte e va in rovina. Questo tema era stato centrale in Grecia nel dibattito dei Sofisti (V-IV sec. a. C.), per i quali la vita, privata e pubblica, personale e politica, è "una battaglia di parole" (hámilla lógon), in cui si scontrano opinioni e ragioni contrapposte, "discorsi duplici" (dissói lógoi): buono e cattivo, giusto e ingiusto, bello e brutto, vero e falso. È in quel campo che si combatte la battaglia per la verità, dove i cittadini della parola rischiano la sconfitta e l'esilio da parte dei padroni del linguaggio. La stessa duplicità e ambiguità della parola torna in quello straordinario trattato sul logos che è la lettera di Giacomo: «La lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale: benediciamo e malediciamo, benedizione e maledizione» (3, 2 sgg.).