Per quasi tutto ciò che concerne il dibattito politico, usiamo termini che spesso subiscono mutazioni tali usare da rendere il discorso incomprensibile, o di parte ma in senso quasi onirico: appoggiato cioè da accoliti «affezionati» a definizioni del significato plurimo quanto passibile di interpretazioni opposte. Ciò ha anche una certa funzione utilitaristica se non, mi verrebbe dire, quasi comicamente «salvifica», per puntellare discorsi la cui identità è data proprio dalla residuale, sempre più residuale, valenza dei termini. Prendiamo ad esempio gli ormai «quasi» sinonimi «fascista» e «comunista». Dopo un paio di decenni di prevalenza del secondo, è tornato in auge il primo, buono per tutte le salse. Entrambi valgono, nel senso più lato, come aggettivi sinonimi di «sistema dittatoriale» ma, eletti a sostantivi e specialmente usati come insulti, esplicano la loro debole funzione comunicativa in forza del volume della voce e in virtù del tono di sdegno di chi li usa. Nel caso di «comunista» c'è chi, ponendosi dalla parte del dotto, disquisisce altrimenti, usando la contrapposizione tra «marxiano» e «marxista», concedendosi così un margine linguistico sull'avversario e sottraendogli uno stilema. Ma la parola oggi più vischiosa è piuttosto «democrazia», croce e delizia di ogni visione del politico applicato alle sue valenze infinite, alle sue variabili, una sorta di crocevia mondiale di cloni verbali ciascuno adatto alla ricorrenza particolare in cui viene usato, da chiunque vacuamente o meno evocato.