Nel riprendere il discorso sui quattro volumi che l'Eni, quarant'anni fa, ha dedicato ai "Monti d'Italia", vediamo anzitutto quali risposte sono state date ai problemi sollevati dai valorosi autori. È stata sconfitta la pessimistica previsione di una catastrofica alluvione di Firenze: l'invaso del Bilancino permette di arrestare la piena della Sieve, in modo che non si aggiunga a quella di Valdarno superiore. Nulla è stato fatto invece per Genova; in assenza dei due indispensabili canali scolmatori, le alluvioni si sono ripetute.La legge Bucalossi (1972) ha bloccato il "consumo di territorio" sull'Appennino. Le grandi cave a cielo aperto che gli autori qualificano come «ferite» nel passaggio, sono state in gran parte abbandonate (talvolta usate come discariche). Ma, alla distanza, alcuni punti deboli dei monti emergono con più chiarezza. A pag. 34 del primo volume si legge un manifesto contro il popolamento della montagna: «Un tempo non troppo lontano, ogni prato e pascolo di alta quota di queste montagne, brulicava di pecore e fin nelle forre più impervie e scoscese si spingevano capre insaziabili. Nelle foreste rimbombavano i colpi della scure, e qua e là, un acre odore di fumo annunciava la presenza dei carbonari. Più in basso, dall'abitato fino al margine del bosco, ogni lembo di terra – per ripido, lontano e piccolo che fosse – veniva seminato a grano o a granone. Erano le manifestazioni intense e per qualche aspetto anche suggestive e primordiali di uno sfruttamento della terra spinto fino e oltre il limite estremo: un'attività agro-silvo-pastorale di mera sussistenza per chi la praticava e, non di rado, di vera e propria rapina delle risorse naturali che dovevano subirla».È un concentrato di luoghi comuni ancora molto diffusi, ma da riesaminare uno per uno. Con simili premesse, lo spopolamento viene rappresentato come un fenomeno che favorisce il «ritorno alla natura», e il turismo ecologico (non si parlava ancora di agriturismo) viene indicato come volano economico per le terre alte spopolate. Ma ricerche più accurate dimostrano che oltre una certa soglia di spopolamento neppure un turismo "integrato" è più possibile. Qua a e là si suggerisce che una minore pressione delle attività umane favorisce il ritorno di specie animali selvatiche "originarie". A distanza di tempo, gli stessi sostenitori di questa ipotesi hanno riconosciuto che si sbagliavano.Ma l'importanza dei nostri volumi supera i loro limiti. Il merito maggiore è di Italo Zannier. Egli fotografa i pascoli come superfici importanti per uomini e animali, insegue la fatica dei terrazzamenti, fissa i vigneti poveri per chi guarda ma importanti per chi li cura, colloca le masserie isolate nel verde coltivato. In sintesi, egli mostra gli ultimi momenti vitali di quel "patrimonio rurale" che è fatto di tecniche culturali sofisticate di regimazione delle acque di uso intelligente della pietra. La documentazione fotografica di Zannier permette oggi di tornare negli stessi luoghi e registrare i cambiamenti avvenuti. Le poche verifiche fatte danno risultati preoccupanti. L'abbandono di coltivazioni, pascoli e boschi ha prodotto ovunque una spessa copertura vegetale, disordinata e fragile. Il paesaggio, quella bella combinazione di terra e di fatica umana ordinatrice, è scomparso. I rischi aumentano.Nel 1988 è andato in fumo il parco di Yellowstone. Nel 2003 gli incendi dei parchi australiani sono arrivati ad assediare Sidney. Cronaca recente: i roghi hanno distrutto in Canada migliaia di ettari di foresta non più utilizzata e controllata. Forse è il caso di pensare a una rinnovata gestione dei territori montani davvero ovunque, e ovviamente qui.