Il giorno dopo la notizia della liberazione di Pierluigi Maccalli, padre e fratello, è quello della ri–creazione. Dopo la forzata assenza di due anni è come ci fossimo abituati a quella sorta di vuoto che un presentimento precario aveva cercato di insinuare. Poi il giorno della notizia, attesa e temuta, arriva, come la fine di una guerra che non si vuole ammettere che ci sia stata. Quindi, non detto, come nuovo ostaggio s’infiltra un silenzio che assomiglia alla bandiera della pace. I saluti della gente che si congratula come tutto fosse dipeso da noi, qui, innocui missionari nel Sahel. Ringraziano per le preghiere, si fa memoria di quanto si sarebbe dovuto fare per evitare il rapimento, si immaginano le trattative coi rapitori e si arriva a far finta di non sapere dello scambio di prigionieri e dell’inevitabile riscatto pagato. Sono sicuri che tutta l’operazione non sia altro che una manifestazione divina e che, in fondo, non c’era da preoccuparsi affatto. Bastava lasciar fare a questo loro Dio, i cui tempi coincidono raramente coi nostri. Il giorno dopo la notizia del rilascio è tutto diverso e, non vedendo di persona padre Gigi, l’assenza di cui ci si era fatti una ragione per non soffrire troppo, si trasforma in qualcosa di inedito e sconosciuto. La sua presenza–assenza è adesso garantita da immagini, informazioni, comunicati ufficiali e richieste, ormai meno numerose, di conferme dell’accaduto. In fondo, e fino a prova contraria, hanno ragione loro. Hanno ragione i poveri di Bomoanga, la sua zona, in questa savana con sempre meno alberi a fare da frontiera col nulla. Lì, adesso, ci sono in pianta stabile i “banditi”, così sono chiamati i sedicenti jhadisti locali. Impongono alla gente di non tagliare gli alberi per commerciarne, guadagnando i pochi soldi necessari per pagare le tasse scolastiche, le medicine e i mille imprevisti della povertà.
We are still alive, siamo ancora vivi. Era la sua voce, la sera dello stesso giorno, col cellulare nell’auto nel ritorno a casa dopo un incontro non terminato. Era lui, e la frase in inglese è una specie di saluto in codice tra noi e richiama giorni duri vissuti in Liberia. Dopo una notte passata tra colpi di mortaio e raffiche di kalashnikov in quel di Monrovia, la gente si salutava così, la mattina. Siamo ancora vivi! Non era scontato potersi parlare durante quella guerra civile che volgeva termine, dopo 15 anni, nel lontano e vicino 2003. Era diventata un’abitudine, con Pieluigi, usare questa frase con uno sguardo di complicità. Stavolta, però, la frase lasciava intravvedere molto di più del semplice, consueto saluto. Era il riassunto di due anni sottratti alla vita e a essa imprestati. Forse non si è mai tanto liberi come in detenzione. Liberi di tacere, di pensare, di scappare o rimanere, di credere o abbandonare ogni tipo di fede che non sia quella di arrivare il giorno dopo ancora vivi. We are still alive, siamo ancora vivi, lui e noi, dopo tutto questo tempo, messo tra parentesi oppure ancora più profondo dell’altro, quello normale. Oppure da nessuna parte esiste un tempo “normale”, se non per i mediocri che si accontentano della vita, comunque essa sia. Vivere due anni in cattività non è da tutti e il giorno dopo, pericoloso ed esaltante, riconduce all’unica domanda che poi conti davvero. Come vivere da persone libere, dopo la somma libertà della prigionia? Dalla libertà nella detenzione alla detenzione della libertà che, come sappiamo, esiste solo come concetto, ambiguo e si tradisce quasi sempre nella realtà quotidiana. Perché, di fatto, questa domanda è per noi, rimasti, in questi due anni, fintamente liberi e ora chiamati a liberarci dalle subdole schiavitù che la paura evidenzia ed esalta. Pierluigi è pericolosamente libero e adesso spetta a noi, ingenui insorti dopo due anni di attesa, fare assieme a lui pratica della libertà, senza cercare scuse da carcerieri.
Niamey il giorno dopo, ottobre 2020