Nella Costituzione, al secondo comma dell’articolo 53, si legge che «il sistema tributario è informato a criteri di progressività». Il sistema, non ogni singolo tributo, come risulta chiaro sin dai lavori della Costituente e come è stato ripetutamente ribadito dalla Corte costituzionale. Infatti, nel nostro ordinamento sono presenti numerosi e rilevanti esempi di tassazione non progressiva, ma proporzionale o addirittura “piatta”. Basterebbe citare i casi delle rendite finanziarie e degli affitti con la cedolare secca. O della “flat tax” sui redditi da lavoro autonomo, di cui l’ultima legge di bilancio ha ampliato notevolmente il campo di applicazione. Al di là del giudizio sulle singole misure, il problema è che il sistema stesso si sta vistosamente sbilanciando al punto che, secondo alcuni studi, per il 5% dei contribuenti più ricchi il prelievo funziona al contrario, cioè in senso regressivo. Superati i 90 mila euro l’aliquota effettiva inizia a ridursi.
«Negli ultimi decenni – argomenta una nota dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica, diffusa il mese scorso – il progressivo svuotamento dell’Irpef ha rappresentato una tendenza costante della legislazione tributaria. Una quota sempre più ampia dei redditi è stata assoggettata a una tassazione cedolare più vantaggiosa di quella progressiva».
È un processo inverso rispetto a quello che i costituenti avevano inteso avviare con l’articolo 53. Allora uno dei protagonisti del dibattito, forse proprio il più attivo, fu il dc Salvatore Scoca, che nella seduta dell’Assemblea del 23 maggio 1947 pronunciò un lungo intervento per sottolineare come la lenta evoluzione in senso progressivo della legislazione tributaria rispetto allo Statuto Albertino fosse ancora decisamente insufficiente. «La massima parte del gettito dell’imposta diretta è dato ancora oggi dalle tre imposte classiche sui terreni, sui fabbricati e sulla ricchezza mobile, che sono a base oggettiva o reale e ad aliquota costante», disse Scoca in quel solenne consesso. E aggiunse: «Se poi consideriamo che più dei tributi diretti rendono i tributi indiretti e questi attuano una progressione a rovescio in quanto, essendo stabiliti prevalentemente sui consumi, gravano maggiormente sulle classi meno abbienti, si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure in misura proporzionale, ma in senso regressivo».
Un’analisi lucidissima e che contiene elementi di estrema attualità. Tanto più in una fase in cui si registrano fenomeni crescenti di concentrazione della ricchezza e in cui l’elevata inflazione infierisce sui redditi fissi e bassi. Il tema della progressività della tassazione, quindi, dovrebbe essere centrale e invece è il grande assente nel dibattito in corso sulla riforma fiscale, in vista della nuova legge delega. È un argomento quasi tabù, come se far pagare di più chi possiede di più fosse una forma di esproprio proletario e non «lo svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di uguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane in spirito di solidarietà politica, economica e sociale», secondo gli articoli 2 e 3 della Carta (Corte costituzionale, ordinanza 341/2000).
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