Dopo Yoshua Bengio, tocca a Geoffrey Hinton. Sono i padri dell’Intelligenza artificiale (Ai) e il loro figliolo li spaventa. Ultimo in ordine di tempo è Hinton e quasi tutti i quotidiani di ieri (3/5) riportano il suo allarme. Sul “Corriere” questo è il titolo al servizio di Massimo Gaggi: «Hinton lascia Google. “Ho creato l’Ai. Ora la temo”». Sulla “Repubblica” – titolo: «L’Ai è pericolosa» – Pierluigi Pisa riporta questa frase di Hinnton che ben descrive la paura, o forse il panico: «A volte penso che è come se degli alieni fossero arrivati sulla Terra e le persone non se ne fossero accorte perché parlano troppo bene l’inglese». La “Stampa” vira decisamente sull’apocalittico dando la parola al filosofo e futurologo Yuval Noah Harari – titolo: «Harari vede nero: ci annienterà» – nel servizio di Gabriele Beccaria: «L’Ai ci minaccia in una direzione inattesa: il linguaggio. E il linguaggio è la materia di cui è fatta quasi tutta la cultura umana». “Libero” prima sdrammatizza: «Fermarla non è possibile. Controllarla è necessario» è il titolo al servizio di Francesco Specchia. Poi terrorizza. Claudia Osmetti dà la parola al professor Alberto Custodina dell’Università di Pisa: «Potrebbe essere impiegata per sviluppare armi autonome, programmate per attaccare senza una supervisione». Accanto al titolo del “Messaggero” – «Peggio dell’atomica» – l’avvertimento richiama alla mente l’automatica “Bomba Fine di Mondo” sovietica che nel film Il dottor Stranamore (1964) di Stanley Kubrik distrugge la Terra; e quindi va preso sul serio il monito del “Quotidiano nazionale”: «Può finire in mani sbagliate». Grossi guai all’orizzonte. Così Vittorio Macioce sul “Giornale” conclude il suo servizio: «Che cosa spaventa Geoffrey Hinton? Che cosa ha visto? Qualcosa che sta tra i sogni acidi di Philip K. Dick e gli sforzi di Prospero per tenere in catene l’intelligenza mostruosa di Calibano». Forse a Hinton, come a molti di noi, è venuto in mente il fulmineo racconto – 257 parole, meno di questo articolo – di Fredrik Brown: La risposta (1954). In un futuro remotissimo i computer di 96 miliardi di pianeti sono finalmente connessi. La prima domanda al superprocessore è: «C’è Dio?». La risposta è fulminea: «Sì: adesso, Dio c’è». Forse non sarà Dio, ma se si crede tale per noi saranno comunque grossi guai.
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