Idue campi su cui dovrebbe mettersi alla prova una generazione di giovani intellettuali e artisti – oggi così frastornati fiacchi inconcludenti – sono a parere di molti quelli dell’ecologia e della pedagogia. La difesa dell’ambiente, delle stesse possibilità di sopravvivenza della vita sulla terra; e l’ingresso nella vita attiva delle nuove generazioni, dei nuovi nati. Molti anni fa misi ad apertura di un mio inutile scritto la dedica “Ai nostri morti” e lo conclusi con quella “Ai nuovi nati”. Oggi, complice l’età, mi capita fin troppo spesso di pensare ai miei morti, noti e comuni, colti e analfabeti, e, diciamo così, di intrattenermi con loro ripensando quel che sono stati, quel che hanno hanno detto e fatto, e a quanto mi hanno dato con le loro parole e ancor più con il loro esempio, e questa compagnia è molto gratificante; mentre mi capita di pensare con angoscia al futuro dei bambini che conosco o incrocio nelle vie della città al seguito dei loro genitori o dei bambini di cui leggo sui giornali, quelli che muoiono nei barconi che affondano o vengono fatti affondare o, in tanti paesi, di fame e di guerra. Ma forse quelli che mettono addosso un’ansia maggiore sono proprio i bambini privilegiati, i figli del benessere e della pace, consegnati ad adulti trasandati e ottusi, genitori o educatori che non sembrano davvero preoccupati del loro futuro e, se lo fanno, quelli che non sono afflitti dal bisogno e da altre pesantissime insicurezze lo fanno in termini materiali e di status. Ma se i genitori “non sono all’altezza” del tempo in cui vivono, non lo è neanche la maggioranza degli insegnanti, anche se è tra loro, più che tra i genitori, che incontro chi si dà pena per loro. In altre epoche storiche, per esempio al tempo delle dittature come delle democrazie nate dalla Grande Guerra, fu lo Stato ad assumersi, consigliato da pedagogisti che fidavano più nell’educazione pubblica che in quella privata, la responsabilità della formazione dei “nuovi arrivati”. Nel bene e nel male, va da sé, e nel mentre che resisteva una pedagogia confessionale, teoricamente bene impostata ma troppo essenziale e ristretta. Credo oggi, scandalizzando forse qualcuno, che si debba puntare sulla scuola piuttosto che sulla famiglia – anche se questo non esclude affatto il dovere e il bisogno di occuparsi della famiglia. E credo che gli insegnanti abbiano in genere più possibilità (più sapienza; meno egoismo e meno chiusure) nell’affrontare i problemi della trasmissione di un sistema di valori e di conoscenze da una generazione all’altra. Ma la scuola langue, nonostante gli sforzi dei singoli, ed è piena di insegnanti infingardi ma soprattutto di insegnanti sfiduciati anche quando ostinati e coscienti dei loro enormi, pesanti doveri, ed è diretta in alto loco da politici mediocri e senza visione, gretti, spesso anche imbecilli. È da dentro la scuola che un modo serio di lavorare con i “nuovi” può e deve anzitutto ripartire, e la pedagogia non è dunque meno importante dell’ecologia, nei nostri compiti presenti e futuri, nelle lotte che è nostro dovere proporre e affrontare.