Come parliamo di Dio ai bimbi di coppie gay»? È il titolo di una pagina del Corriere della sera di tre giorni fa. Domanda quasi angosciosa, cui la Chiesa di oggi deve rispondere, e per questo i suoi vescovi vogliono chiedere l’aiuto dei fedeli, quali essi siano. Anche gli apostoli chiedevano come si può pregare, cioè parlare di Dio. La prima preghiera che ho sentito e visto allo stesso momento fu sulle pagine di un album con figure del Nuovo Testamento che mio padre, dalla prigione dove si trovava, aveva ritagliato da una rivista inglese ed incollato per me. Avevo quattro anni, si avvicinava il Natale, egli non poteva essermi vicino, né comperare per me un regalo, ma trovò il modo di raccontarmi la storia del Bambino Gesù attraverso fotografie di pastori della Palestina, delle grotte nel deserto, dell’acqua del Giordano. Fu il suo modo di parlarmi per la prima volta di Dio. La Pastorale del turismo della diocesi di Trento ha pubblicato, anni fa, un opuscolo ideato dalla collaborazione delle parrocchie di alcune valli del Trentino e intitolato Pregare in montagna con i salmi. Rileggendolo oggi ricordo quante lunghe camminate si facevano da giovani con la compagnia di mio padre e come era facile allora pregare dalle alte cime delle Dolomiti o lungo i torrenti e le valli umide per la rugiada del mattino. Erano parole dei salmi: «La tua parola, Signore, è luce alla mia strada». E poter dire alla sera: «Il giorno scompare, la luce presto muore, resta con noi Signore». La preghiera in montagna viene da sé, è come l’aria che si respira, come il colore intenso del cielo, come la dolcezza del buio che arriva perché tu possa dormire. Allora dall’alto, quando non c’è più niente che ti chiama, ti pare di assistere all’affanno della terra che gira nell’universo mentre fa vedere solo a te i suoi gioielli: le stelle, le nuvole, l’ultima luce del sole che in pochi attimi precipita al di sotto di te. Parlare di Dio ai bambini è come dire loro di ascoltare quel piccolo cuore che ancora, per poco, sa conoscere la bellezza, la bontà, l’amore e la gioia che nascono con noi. È il tesoro che pochi sanno mantenere lungo gli anni, quella serenità che va coltivata come una pianta preziosa, quella fiducia nell’umanità che si fa una, nella ricerca della pace. Nel diario di una giovane ebrea morta morta ad Auschwitz, Etty Hillesum, trovo questa poesia: «Sono giorni di spavento, mio Dio. Questa notte, per la prima volta, sono rimasta sveglia nel buio, gli occhi mi bruciavano, poiché scorrevano senza fine davanti a me immagini di grande sofferenza umana. Sento di prometterti una cosa, mio Dio. Desidero aiutarti a non spegnerti dentro di me».