Per il critico «canonico» Harold Bloom contano anche simpatie e antipatie
Bloom ha superato da poco la soglia degli ottant'anni, ma come il suo coetaneo (e rivale) George Steiner, non smette di elaborare e riproporre i suoi temi, in chiave sempre più autobiografica. Lontani sono gli anni in cui la critica letteraria aspirava a diventare una tecnologia oggettivante, una Scienza del Testo che poteva permettersi di cancellare l'esistenza degli autori. La struttura e la semiologia testuale dovevano essere tutto; gli autori, i lettori e la storia delle culture letterarie erano nulla.
Bloom (non da solo) ha restituito la critica alla sua grande tradizione, che è saggistica, valutativa, soggettiva. «Non riesco a fare nulla che non sia personale» risponde al suo intervistatore Adam Fitzgerald: «O il lavoro del critico è parte della letteratura o non dovrebbe esistere affatto. L'oggettività è una farsa. Un mito». E poco più avanti: «Con l'avanzare dell'età si avverte che il lavoro dello studioso - l'insegnamento, la lettura, la scrittura - deve essere non solo umanistico, ossia proprio dell'umanista, ma umano».
Bloom arriva spesso a un'enfasi quasi maniacale nella misurazione della grandezza degli autori, non nasconde tuttavia le sue gerarchie e preferenze personali: Dante viene dopo Shakespeare e (come Platone) è grande ma non gli piace. Eliot non lo entusiasma, preferisce Wallace Stevens e Hart Crane. Il suo idolo moderno è Whitman, amato per quel «senso della transitorietà» che non lo abbandona mai. Gli piacciono i «sublimi scettici», da Lucrezio a Leopardi. Ma con Auden («un ottimo poeta comico» e niente di più) Bloom dice che litigava spesso. Auden non sopportava Shelley, né Withman né Stevens, e neppure Lucrezio. Perché? «La cristianità» spiega Bloom «era troppo radicata in lui…».