Caro Avvenire, in Australia occorre aver compiuto i 16 anni per l’accesso ai social, perché non anche da noi? Che cosa possono famiglia e scuola quando questa “agenzia d’informazione” consente l’accesso a tutto? E se vogliamo salvaguardare le giovani generazioni, perché non una patente per accedere al web? Andrebbe concessa dopo un attento colloquio che accerti una responsabile acquisizione dei contenuti da parte dei ragazzi, al primo anno della secondaria di secondo grado.
Giuseppe Gabriele
Caro Gabriele, l’idea della patente è suggestiva e ci induce a riflettere ancora su un tema cruciale di questi anni. La scelta australiana è altrettanto radicale (su queste colonne ne ha evidenziato meriti e difficoltà Stefania Garassini – shorturl.at/WWJjN ), ma semplifica le procedure: divieto universale sotto un’età specifica. È l’unica via, perché davvero famiglia e scuola non possono nulla? Fatico a crederlo. D’altra parte, ci muoviamo in un ambito così nuovo e in rapido mutamento che fare analisi e proporre rimedi risulta impresa sempre incompleta.
L’ampiamente discusso libro di Jonathan Haidt, La generazione ansiosa (Rizzoli), sostiene che l’avvento dei social media abbia portato a un aumento significativo dei problemi di salute mentale tra gli adolescenti, in particolare ansia e depressione. Haidt sostanzia la sua tesi con dati che indicano un forte incremento di tali patologie negli Stati Uniti in coincidenza con la diffusione degli smartphone a partire dal 2012. Molti hanno contestato il nesso causale fra i fenomeni ed evidenziato come altri studi smentiscano l’allarme. In Spagna una ricerca recentissima ha rilevato che la dipendenza dai social media contribuisce al 55% dei sintomi di ansia, al 52% dei casi di depressione e al 48% dei comportamenti aggressivi tra i giovani. Chi ha ragione, allora?
Si può rilevare che il primo decennio del secolo aveva visto un tecno-ottimismo degli esperti circa la Rete. In sintesi: il Web ci renderà più intelligenti. Il secondo decennio e l’inizio del terzo hanno ribaltato il messaggio: molti intellettuali e politici (che pure cavalcano X, Instagram e TikTok) pensano che invece ci stia rendendo più stupidi (e insensibili). Un principio (moderato) di precauzione sembra affermarsi se guardiamo alle iniziative legislative che si vanno proponendo. La Camera dei Rappresentanti Usa è chiamata ad approvare in via definitiva il Kids Online Safety Act, con l’obiettivo di proteggere i minori da contenuti online che possono indurre a suicidio, disturbi alimentari e abuso di sostanze. Il disegno di legge introduce tutele specifiche e responsabilità per le piattaforme. Dodici Stati americani hanno già introdotto norme che richiedono il consenso dei genitori, la verifica dell’età e impostazioni di privacy avanzate per gli utenti sotto i 18 anni.
In California si dibatte sul progetto di alcuni parlamentari per obbligare i gestori dei social media a inserire avvisi sui rischi per la salute mentale, al fine di proteggere i bambini dai potenziali danni associati all’uso eccessivo. L’idea ha suscitato però un dibattito sulle minacce per la libertà di espressione. Ed è questo forse il punto chiave, caro Gabriele. Quanto paternalistico deve essere lo Stato? Può imporre il casco per il monopattino. Ma è giusto che vieti del tutto alcune modalità di comunicazione e informazione? Se sono gravemente nocive oltre ogni ragionevole dubbio, probabilmente sì. La domanda cui dobbiamo oggi rispondere è se siamo in questa situazione. Non conosco la risposta, penso che sia però utile averne una in tempi rapidi.
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