«L
e parole sono pietre», ha scritto Carlo Levi. E mai come nel libro di Victor Klemperer, La lingua del Terzo Reich
, possiamo renderci conto del valore profondo di questa semplice affermazione. Perché, ci spiega l'autore, ebreo tedesco sfuggito alla deportazione e poi vissuto nella Germania comunista, i totalitarismi inventano una propria lingua e tendono a distruggere quella che era espressione della società che li aveva preceduti. E non solo creano nuove parole adatte a sollecitare il consenso e l'identificazione cieca del popolo o modificano le vecchie, come fanatismo, vittoria totale, stirpe, ma attraverso la loro ripetizione e l'uso costante dell'aggettivo superlativo le trasformano in strumenti di guerra. E la denigrazione violenta dell'avversario fa parte di questa trasformazione che dalla lingua passa alla mente, da linguistica diviene antropologica. Anche il terrore giacobino e poi il totalitarismo comunista hanno creato un loro linguaggio, declinando i termini della cultura del sospetto e del tradimento. E anche qui lo sbocco fu mortale. Se ne deduce che le parole vanno sorvegliate, usate secondo il loro significato, mai gridate a ferire o a distruggere l'avversario. Toni sommessi, pacati: uno strumento vitale per la libertà.