Ogni tanto a proposito di “Confratelli” poco conosciuti qualche amico o qualche lettore mi fa una domanda: «Ma dove vai a pescarli certi nomi così sconosciuti?». Così per esempio quando di recente ho parlato di Giovanni delle Celle. Per la verità non li cerco, ma li trovo con la memoria senza confini della rete. Chissà che diranno oggi leggendo la vicenda di san Pietro Pappacarbone (sic)? Infatti proprio dalle parti di Crotone vediamo oggi, e da giorni, che le cronache sono piene di notizie tutte tristi e tragiche. Vale dunque la pena di ricordare che proprio da quelle parti ha vissuto e fatto del bene anche questo santo, ancora sconosciuto da troppi. Tutta la vita nel Sud, tra Campania e Calabria. Pietro nasce a Salerno nel 1043 e la famiglia Pappacarbone, nobile e di origine longobarda, aveva già nelle sue file il fondatore e primo abate dell’abbazia di Cava dei Tirreni, sant’Alferio, del quale Pietro è nipote. Per Pietro infanzia e giovinezza con ingresso precoce nelle file dell’Ordine benedettino. Soddisfatto? Si, ma lui guardava lontano e in grande, e perciò volle formarsi anche a Cluny, allora principale centro della vita monastica europea. Furono anni di preparazione. Qui, ordinato sacerdote, nel 1067 torna al monastero di Cava de’ Tirreni con l’intenzione di rimanerci, ma papa Alessandro II a sorpresa lo fa vescovo di Policastro. Sorpreso soprattutto lui che resse soltanto 3 anni – assetato com’era di vita contemplativa – poi tornò a Cava de’ Tirreni ove fu eletto successore dell’abate Leone, ma anche qui resse poco e volle trasferirsi nel monastero di Perdifumo del Cilento. Forse facile qui il sorriso, tra “Pappacarbone” e “Perdifumo – ma lui ci restò fino alla morte, 4 marzo 1123, a 80 anni. E così, comunque resta sempre acceso il fuoco della sua passione per la formazione dei monaci, e per la purificazione delle tradizioni talora di origine e natura eccentrica e con tracce di paganesimo e magie. Furono nella Chiesa intera tempi di grande cambiamento, ed è rimasta famosa la sua adesione pronta e generosa alla “Riforma gregoriana”, sia nei nuovi testi liturgici che nell’approfondimento teologico e biblico, ma per lui soprattutto nella ricerca di una spiritualità più profonda per i monaci, fatta di rinunce vere e donazione al prossimo, ma anche di preghiera e penitenza, dolcezza e umiltà nell’accostare e trattare gli “ultimi” e i poveri. Fu grande formatore di monaci, e forse – per un altro aspetto – esemplare anche per quel “Santo subito!”, di cui in seguito nei secoli ci sarà una qualche abbondanza, talora alle cronache nostre di vertici ecclesiastici. Torniamo a lui: tra il 1079 e il 1086 costruì il complesso di Sant’Angelo in Grotta, e resse pienamente il monastero per 45 anni. Famoso e ammirato: nel 1092 Papa Urbano II, suo compagno di studi a Cluny, attraversando l’Italia gli fece visita e volle consacrare di persona la basilica. La sua tomba nel 1874 fu trasferita nella cattedrale di Santa Maria Assunta. Purtroppo c’è altro, oggi da quelle parti. Le cronache ci dicono innocenti profughi, miserabili e abbandonati da tutti in cerca di tutto ciò che servirebbe per vivere. Tristezza, con una piccola sorpresa: leggo che per il nostro Pietro ha scritto pagine anche Joseph Ratzinger nel suo volume “Santi. Gli autentici apologeti della Chiesa”, Lindau edizioni, Torino 2007. Compagnia gradita. Se questo nostro San Pietro ha trovato ascolto e lettura nella vita di Benedetto XVI allora valeva la pena di ricordarlo anche qui: memoria santa di ieri e impegno di oggi per le vittime della tragedia di Crotone.
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