Rubriche

Paolorossi

Alberto Caprotti domenica 8 dicembre 2024
Ero allo stadio Sarrià di Barcellona il 5 luglio 1982 quando un giocatore dalle gambette chiare fece piangere il Brasile. Ed ero su un taxi a Sydney, diciotto anni dopo, quando l’autista australiano intuendo il mio accento, mi sorrise adorante: «Italiano? Eh, Paolorossi…». La chiave stava tutta in quel «eh», e nell’allusione dei puntini di sospensione che idealmente seguivano il nome. Un modo per dire: so bene chi siete voi italiani, siete quelli di quel ragazzo lì. Domani sono quattro inverni esatti da quando se ne è andato per sempre, a soli 64 anni, senza nemmeno tentare una finta in area. E da quel giorno siamo stati tutti un po’ più poveri. La tripletta che Paolorossi, tutto attaccato, rifilò al Brasile ha segnato il nostro mondo, mica solo quel Mondiale. Ginocchia fragili, menischi a perdere: tre volte sotto i ferri, una carriera finita presto, l’addio al pallone molto prima di tanti che si sono trascinati il tramonto fin dietro la montagna. Poi la televisione, sottovoce, una presenza da commentatore: magra, distinta, sottile. Breve. Anche quando ha detto addio, Paolorossi lo ha fatto senza disturbare, senza le discussioni feroci mosse su un altro mito del pallone come Maradona, che lo aveva appena preceduto in cielo. Destini diversi, stesso calcio: quello che da ragazzo, in un pomeriggio bollente a Barcellona, mi fece innamorare. © riproduzione riservata