Rubriche

Palmieri e la memoria perduta degli ebrei di Roma

Cesare Cavalleri mercoledì 11 giugno 2014
Un romanzo sulla memoria, un romanzo sull'invenzione della vita, un romanzo che racconta la vita mentre la sta immaginando. Un romanzo sul peso del passato che diventa destino. Tutto questo è in Superman è nato in Egitto, nuovo romanzo di Franco Palmieri (Bietti, pagine 188, euro 14) e il protagonista di questa storia non poteva che essere un ebreo, in nome di un popolo «condannato a soffrire anche in assenza di carnefice».Da profondo conoscitore dei meccanismi della scrittura, Palmieri ha congegnato la storia su ingranaggi perfettamente sincronizzati. Incomincia in prima persona parlando di Bruno un compagno di scuola, ebreo, che ha fatto perdere le sue tracce, ma gli ha consegnato un diario, datato 1983. E già a pagina 18 incomincia la trascrizione del diario, dunque in prima persona, ma della persona di Bruno. Nelle seicento pagine del diario «ci sono anche i peggiori anni della nostra vita, gli anni di piombo, le rapine e gli assassini tra ideali uguali e contrapposti, le riunioni segrete, le fasulle strategie e le rabbie esibizioniste dal '68 in poi», perché Bruno ha effettivamente partecipato al Movimento o, meglio, l'ha costeggiato, vivendolo gregariamente come rischiosa occasione di sfogo che puntualmente si concludeva con la disponibilità sessuale delle compagne.A un certo punto, però, Bruno ha detto basta, si è defilato, ha indossato l'abito grigio che nascondeva sotto l'eskimo ed è diventato professore in un paese della Sabina, a dare un po' di cultura a ventotto ragazzi che sbagliano le consonanti, soggiornando in una trattoria con alloggio, dove una cameriera, Rosa, che ha l'aria delusa della sabina che non è stata rapita, gli si concede in cantina senza preliminari.A Roma, dove rientra saltuariamente, Bruno s'incontra con Annelore, una tedesca molto disponibile che incomincia a dargli un po' di disgusto. Finché irrompe Leda, un'americana di ascendenza ebraica, bionda e bellissima, che entra nella vita di Bruno e gliela cambia. Leda (che potrebbe essere Liza) è indipendente, ha quindici anni meno di lui, vuol fare la giornalista. Bruno chiede il trasferimento a Roma per ricominciare con lei, è geloso, immagina perfino di uccidere un presunto rivale con la pistola che stava ancora nell'anfratto in cui l'aveva nascosta negli anni del Movimento, ma è un altro episodio del suo non distinguere vita e fiction e del resto Leda conclusivamente gli dirà, nel diario, «Non ti lascerò mai, Bruno».Nelle ultime pagine l'autore riprende in prima persona per continuare invano la ricerca del Bruno reale, e forse lo troverà nella clinica psichiatrica in cui da tempo sopravvive sua madre. Perché il peso che ingombra la memoria di Bruno è che suo padre, ebreo, era stato fucilato dai nazisti, a Cassino, quando sua madre lo portava ancora in grembo. Per questo Bruno porta il nome di suo padre e quando sua madre lo chiamava «Bruno, Bruno», invocava quel marito abolito. Fino all'ultimo, anche nella clinica in cui, demente, non abbandonava mai lo specchietto in cui si rimirava il viso impiastricciato di rossetto. Sempre in attesa del suo Bruno, di quale Bruno?Un romanzo complesso, per lettori non adolescenti che capiranno che cosa vuol dire essere ebreo a Roma, dove gli ebrei parlano un yiddish dialettale e seguono rituali in cui propriamente fede non c'è, se non quell'inestricabile groviglio di tradizione e di affetti familiari. Del nonno di Bruno «s'era saputo che ai nazisti che gli chiesero dove fosse il resto della famiglia, lui rispose mettendosi una mano sul cuore: Qui».