Vindica te tibi, “rivendica te a te stesso”: così suona l'apertura dell'Epistolario di Seneca a Lucilio. Tu sei così affaccendato (occupatus) in mille cose futili ed esteriori, argomenta il filosofo stoico, da non essere più padrone di te stesso (suum esse) ma espropriato e alienato (alienum esse): pertanto riappropriati della tua vita, riprendi possesso di te stesso. Vindicare, verbo del lessico giuridico e applicato a beni materiali («rivendicare il possesso di una proprietà illegittimamente sottratta»), viene trasferito all'ambito morale e diventa parola cardine della dimensione senecana dell'interiorità che sarà così cara ad Agostino, a Petrarca e a Montaigne. Il comandamento senecano, riproposto ai giorni nostri, mostra tutta la sua distanza e paradossalità non solo perché la globalizzazione ci ha resi anonimi, piegati al pensiero unico e trasformati in eremiti di massa, ma perché noi individuiamo il progresso e il futuro nella fuoriuscita da noi stessi, nel prolungamento della nostra vita al di fuori della vita stessa, nel superamento dell'ordine naturale: non nell'essere noi stessi ma alieni, extraterrestri, alienigeni, quasi destinati a conquistare e rivendicare un'altra origine e natura: oltre quella umana. Dopo duemila anni, la sentenza di Seneca suona come un allarme.