Olivetti e la Torino tradita dal capitalismo
modo insolito mescolando la sua memoria («imperfetta») col suo lavoro di storica per tornare a un’epoca, e per riaccostarci a una figura fondamentale nella storia economica, politica, civile, culturale, morale della nazione. Per spiegarci il suo mito, la sua diversità. «Adriano», come tutti lo chiamavano e lo chiamavamo, anche chi non lo conosceva (il poco che ho studiato lo devo a una sua borsa di studio, ma l’ho visto solo una volta e da lontano) aveva fatto della sua fabbrica di macchine per scrivere e della città cresciuta intorno alla fabbrica, un esempio straordinario, non unico ma in Italia estremo, di “buongoverno”. E ricordo come fosse un tempo comune trovare le immagini del Buongoverno di Lorenzetti in tanti uffici e case, non solo a Ivrea, grazie a un calendario voluto appunto da Olivetti e da qualche collaboratore delle riviste pubblicate dalla sua casa editrice, Comunità. A Ivrea era quasi automatico paragonarsi a Torino, e a Olivetti la famiglia Agnelli, esponente questa di un capitalismo senza mezzi termini. Molti che poi si dissero ammiratori di Olivetti, li ricordo in realtà servili nei confronti di Agnelli, ma c’è stato un tempo in cui “Adriano” diventò una sorta di emblema, con altri consimili, del risveglio di una nazione, grazie a una tradizione che fu molto minoritaria; oggi, al contrario, mi par di sentire crescere in molti, appartenenti a una diffusa area di cinici e servili accademici e giornalisti, che possiamo anche chiamare genericamente “agnelliani”, una nuova ostilità nei confronti di quel modello. Il modello Fiat – un potere davvero unico sulla città, e influentissimo sulla nazione – è causa, credo, di tanti disastri (anche morali) e della decadenza di Torino, un potere sostituito oggi, si potrebbe dire, dagli eredi di quel modello raccolti intorno al Banco San Paolo (di cui si dice davvero poco in Chi ha fermato Torino?: la finanza al posto della produzione...). Chi ama Torino e molto gli deve soffre della sua stasi e delle sue trovate da pubblicitari; e se non ha certamente nostalgia di quando la Fiat era tutto, la ha per quella di minoranze solide e alternative che quel potere sapevano contrastare. E d’altra parte la decadenza di Torino non è poi così diversa da quella di Milano, città di un potere plurale ma di recente trascinata dai populisti (e dalla componente più compromessa del mondo cattolico) in una decadenza altrettanto vistosa (lo si è visto da come quella classe dirigente ha gestito la risposta all’epidemia!). E se fosse che «chi ha fermato Torino» è pur sempre un capitalismo di rapina, cui nessuna forza consistente sembra più contrapporsi?