Con understatement molto diplomatico, Sergio Romano postilla così il suo nuovo saggio, L'arte in guerra (pp. 88, euro 9), pubblicato nell'intelligente collana Sms (SkiraMiniSaggi), diretta da sua figlia Eileen: «Questo breve libro non ha pretese teoriche e tratta soltanto alcuni casi storici con cui l'autore ha maggiore familiarità. Può forse servire a comprendere perché l'Arte possa essere amata, concupita e spregiudicatamente conquistata, ma anche odiata, perseguitata e distrutta».È una spigolatura molto interessante fra i più clamorosi saccheggi bellici di opere d'arte degli ultimi duecento anni, dato che i conquistatori da sempre amano ostentare le loro vittorie facendo bottino delle opere d'arte o degli oggetti rituali dei vinti. Chi, a Roma, passa sotto l'arco di Tito (non a cercar farfalle come dice il proverbio carducciano), vede nel bassorilievo del corteo trionfale il candelabro a sette braccia, la Menorah, che l'imperatore trafugò dal tempio di Gerusalemme.Il più celebre saccheggiatore, comunque, è Napoleone che già nella campagna d'Africa si era impadronito di preziosità egiziane, per poi far man bassa di tesori italiani (soprattutto nello Stato Pontificio) durante la campagna d'Italia.L'obiettivo era l'allestimento di un grandioso Museo (che oggi conosciamo come «il Louvre») a Parigi, nella convinzione che le opere d'arte stavano bene tutte insieme, a disposizione dei visitatori, per la gloria della Francia (di Napoleone) e a edificazione del popolo. In ciò l'imperatore fu coadiuvato dal fin troppo solerte direttore del Museo, Dominique-Vivant Denon, convinto sostenitore dell'ideologia giacobina dell'«arte liberata» (cioè chiusa in un museo). Anche fra i contemporanei Denon ebbe i suoi oppositori: in particolare, Antoine Chrysostome Quatremère, il quale sosteneva che «il maggior merito della Rivoluzione fosse la nascita di una comunità culturale europea in cui ogni manifestazione artistica sarebbe stata espressione della storia e della particolare identità culturale delle sue diverse regioni». Una concezione, quest'ultima, assai più ragionevole e moderna, perché una pala d'altare, per esempio, andrebbe ammirata nella chiesa per cui era stata dipinta, e non nell'aura obitoriale di un museo (museo=cimitero). Certo, è più comodo trovare i capolavori artistici radunati nel medesimo luogo, ma soprattutto oggi, con l'aumento e la facilità dei viaggi, sono i turisti e gli studiosi che si dovrebbero spostare in questa o quella città per vedere da vicino questo o quel capolavoro.Dopo la caduta di Napoleone (1815), fu incaricato Antonio Canova (che pure era stato in ottimi rapporti con l'Imperatore) di riportare in Italia (in Vaticano) i capolavori deportati in Francia col trattato di Tolentino (1797), compreso l'Apollo del Belvedere e il Laocoonte. Il grande scultore era idealmente più vicino a Quatremère che a Denon, e affermava l'esistenza «di un vincolo storico e "naturale" tra il patrimonio artistico e la sua terra, tra natura e storia». Non tutto fu restituito al Papa, però almeno settantasette delle cento opere pattuite a Tolentino presero la via del ritorno e il 25 ottobre 1816, dopo le operazioni di imballaggio, un convoglio di «quarantuno carri trainati da duecento cavalli» fece il percorso Parigi-Roma.Ma Sergio Romano non si occupa soltanto di Napoleone: documenta i saccheggi coloniali, l'irredentismo estetico della Germania nazista (Hitler voleva un grande museo a Linz, città dove aveva studiato), le disattese direttive che Eisenhower diede ai militari americani per il rispetto del patrimonio artistico (e meno di due mesi dopo centocinquanta aerei alleati distrussero l'abbazia di Montecassino), la disinvoltura dell'Unione Sovietica nell'appropriarsi delle opere d'arte non solo tedesche.Parafrasando la celebre frase di Madame Roland che, mentre veniva condotta alla ghigliottina, esclamò davanti alla statua della Libertà,: «Oh Liberté, que de crimes on commet en ton nom!», Sergio Romano ha messo in esergo del suo brillantissimo saggio: «Oh Arte, quanti delitti si commettono in tuo nome!».