Dei nostri cinque sensi, l'olfatto è il più trascurato dai poeti. La vista, lo sguardo, gli occhi hanno il primato delle citazioni; l'udito non è soltanto l'organo che capta la voce dell'amante, ma addirittura è veicolo di fede (fides ex auditu); il gusto non è unicamente per buongustai, ma è anche metafisico, teologico: la sapienza, infatti, viene da sàpere, capacità di cogliere i sapori, e si dovrebbe imparare ad assaporare anche la parola e i misteri di Dio; il tatto, distribuito su tutto il corpo, consente di riconoscere per contiguità fisica, e l'atto di fede dell'apostolo Tommaso è tattile, sgorga dal dito nella piaga del costato di Cristo. Ma torniamo all'olfatto di partenza. Giacomo Leopardi ha dedicato alla ginestra l'ultimo dei suoi Canti, anzi, all'«odorata» ginestra che «di dolcissimo odor mandi un profumo, che il deserto consola». Interessante la distinzione tra odore e profumo, evidentemente non sinonimi, Daniele Gigli, dopo Fisiognomica (2003), Presenze (2008), Fuoco unanime (2015), ha intitolato Di odore e di generazione la sua nuova raccolta poetica (FaraEditore, pagine 64, euro 10). L'odore accostato a generazione, fa capire che non tanto di profumo si tratta, ma che sono castamente in gioco i “feromoni” che suscitano l'attrazione sessuale e sono captati dall'apparato vomeronasale, situato alla base del setto nasale, distinto dall'apparato olfattivo principale. Senza cortocircuitare la fisiologia con l'amore, il poeta ci ricorda che l'amore è anche fisiologia: «L'odore marcio, l'odore / periastrale, l'odore che non sai se carta / di giornale o umore del mattino, della sera. / L'odore inaspettato, l'offensivo / odore di reliquia, resto d'eredità nascosta, inaccettata. / L'odore marcio, l'odore / periastrale: / quello che non sai mai se è umano, se è /animale». La generazione, per Daniele Gigli, è un'aspirazione, un desiderio, un forte senso di appartenenza generazionale, non realizzato: «E Giunio generò Marino / e venne via da casa, generò Marino / che generò Giampaolo / e Giampaolo sposò Giulia e generarono / e nacque Monica e ancora generarono / Daniele – che attraversò la vita e il secolo. / Giunio fece la stirpe e fu Marino e fu Giampaolo / che generò / Daniele – che generò: nessuno». Il verso è netto, senza scarti, e il sentimento del tempo (per dirla con il sempreverde Ungaretti) è ben vivo, fin dal quasi sonetto iniziale: «Dove più quieto s'alza l'equinozio / è adesso il tempo, è adesso che si sceglie / vita o morte, speranza o perdizione. // Ora che il vento lieve e fuori tempo/ muove spazi, fa promesse che non sa portare, / adesso è l'ora, adesso è vivere, è restare». Singolare la preferenza di Gigli (torinese, non toscano), per il verbo “rugumare” al posto di “ruminare”: «il debole tradito dalla brama, che ruguma e grugnisce»; «ruguma il pastore il bene che non paga»; «ruguma il pastore, ruguma la pecora diletta». Da una nota finale, la curiosità del lettore ricava qualche indizio: «Questo libretto è in memoria di quelli che se ne vanno e in offerta per tutti quelli che restano. Di tutte, la memoria più dolce e più aspra è quella di Cinzia R. Avremmo potuto amarci. Forse l'abbiamo fatto».