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Odio online, uno studio che ci deve far riflettere

Gigio Rancilio venerdì 26 giugno 2020
Dalle Nazioni Unite ai gestori dei social, passando per progetti come «Parole ostili», non c'è giorno nel quale organizzazioni e privati non lavorino per contrastare l'odio online. Anche la politica ciclicamente scende in campo, con proposte che vanno da una maggiore responsabilità dei gestori delle piattaforme social a pene severe per gli editori (come in Australia) che non moderano i post sui propri profili social.
Su una cosa siamo tutti d'accordo: bisogna contrastare il fenomeno dell'odio online. Ma per farlo nel migliore dei modi occorre analizzarlo a fondo, non basandoci solo su ciò che vediamo o sulle nostre sensazioni a riguardo. In Italia l'hanno appena fatto DataMediaHub e KPI6, con una ricerca che ha analizzato le conversazioni su Twitter dal 25 aprile al 17 giugno.
Lo studio ha esaminato sette categorie di discorsi d'odio: generici, sessismo, omofobia, razzismo, antisemitismo, discriminazione territoriale, ideologie politiche. «Complessivamente sono stati identificati 679mila tweet e 263mila condivisioni, da parte di 148mila utenti unici, contenenti almeno un'offesa».
Le quattro aree tematiche nelle quali si concentra la maggior conflittualità sono relative a "legge", "governo e politica" (26%), "intrattenimento" (21%) e "news" (19%). I politici più bersagliati sono Salvini (2,6%), Meloni (1,6%)e Conte (0,8%).
Analizzando tutti i tweet di odio, emerge comunque una buona notizia. «si tratta solamente del 3,7% dei tweet postati nel periodo su Twitter» e a farlo «sono state 148mila persone, cioè l'1,4% degli utenti italiani». Per quello che riguarda la tipologia di offese, «la maggior parte sono insulti "generici», che rappresentano quasi due terzi del totale. «Nel complesso i volumi delle conversazioni relative a incitamento all'odio generico e quelli relativi alle ideologie politiche sono circa 681mila, mentre tutti gli altri poco più di 61mila. Il tasso di engagement di tutti i contenuti analizzati è dello 0,26%». Seconda buona notizia: «Non solo i contenuti di hate speech sono assolutamente minoritari rispetto al volume totale delle conversazioni, ma il livello di coinvolgimento che generano è davvero ridotto».
Quindi, abbiamo esagerato in questi anni a preoccuparci? No. Perché, come spiega il rapporto, la marginalità dei discordi d'odio «non toglie che il sistematico utilizzo di violenza verbale da parte di alcuni soggetti, che talvolta arrivano addirittura a indicare il bersaglio da colpire, sia un fenomeno che richieda un'assunzione di responsabilità dalla quale nessuno può esimersi».
Giusto. Ma chi è l'odiatore tipo? «Coloro che si rendono protagonisti di insulti e incitamento all'odio sono, per oltre due terzi, di sesso maschile e si concentrano prevalentemente nella fascia di età tra 25 e 44 anni, che complessivamente pesa il 64.4%».
In conclusione, secondo gli autori del rapporto, «seppure vi sia da mantenere alta l'attenzione sul fenomeno, e senza dubbio vi siano a livello individuale pericolosi eccessi, il rapporto indica con chiarezza quanto l'hate speech sia un fenomeno ben più circoscritto e limitato rispetto a quanto la narrazione generale sul tema lasci apparire». A generarlo sarebbero soprattutto due fattori: «Una scarsa alfabetizzazione digitale, e una altrettanto problematica condizione psicologica, che per alcuni soggetti si traduce in una scarsa, o nulla, consapevolezza che quanto viene scritto sui social resta permanentemente, e che la mediazione attraverso lo schermo di uno smartphone non implica minore attenzione rispetto alla comunicazione de visu».
Il rapporto propone anche una soluzione: «Riteniamo sia più proficuo intervenire a livello di educazione e acculturamento digitale, sul quale il nostro Paese presenta gravi lacune, piuttosto che ipotizzare ulteriori restrizioni rispetto alle leggi già in vigore». Insomma, dobbiamo fare di più tutti. Senza demandare ad altri il lavoro educativo e di crescita comunitaria che spetta a ognuno di noi.