Quelli di noi che hanno sempre ammirato Irene Brin, che l'hanno letta sui giornali, che hanno assaporato i suoi libri ristampati da Sellerio (
Usi e costumi, 1981;
Diario del successo dell'insuccesso e dei luoghi comuni, 1986;
Le visite, 1991;
Cose viste, 1994), sono grati a Claudia Fusani che ha scritto
Mille Mariù. Vita di Irene Brin (Castelvecchi, pp. 288, euro 22), una biografia che può far rimpiangere ai giovani di non essere nati prima (ma con un po' di applicazione si può ancora recuperare). Quasi tutti dovrebbero sapere (e forse sanno) che Irene Brin è il nome inventato da Leo Longanesi per la precocissima Maria Vittoria Rossi, collaboratrice di
Omnibus, la rivista da lui fondata nel 1938, che inizialmente si firmava Mariù, oppure Odile, perché il padre, alto ufficiale dell'esercito, e la madre, coltissima ebrea nata a Vienna, non volevano che il cognome di famiglia finisse sulle gazzette. E quello degli pseudonimi (appunto, le mille Mariù) è il gioco in cui si nascondeva una donna rimasta enigmatica forse anche a lei stessa, che scrivendo di moda e di bon ton non solo ha inaugurato un tipo di giornalismo che altre, da Camilla Cederna a Donna Letizia, a Lina Sotis, a Natalia Aspesi, a Lietta Tornabuoni e giù giù fino a Maria Laura Rodotà, hanno cercato di imitare ma senza avere il piglio, né la cultura, né la solidità di giudizio dell'originale. Lo pseudonimo più celebre di Irene Brin è la Contessa Clara che dal 1950 fino al 1968 (Irene morirà l'anno dopo, a soli 57 anni), sulla
Settimana Incom Illustrata e su altre riviste e giornali ha dato consigli alle lettrici su come ci si comporta a tavola, come ci si veste, come si risolve un problema di cuore. Consigli sempre eleganti e molto pratici. Una lettrice scrive: «Sposata ho ritrovato il mio primo amore che credevo morto in guerra. Ci amiamo come prima. Che fare?». Risposta: «Convincersi che il suo primo amore è morto davvero. Coraggio, ho molta pena per lei». Nadia Fusani ha fatto una ricerca approfondita negli archivi che riguardano Brin e suo marito Gaspero Del Corso, con il quale, nell'immediato dopoguerra, aprì a Roma la galleria dell'Obelisco, trampolino di lancio per tanti artisti italiani, e dei maggiori (Burri, Vespignani, Savinio, De Chirico, Campigli...), favorendo i contatti con le esperienze americane. E la grande, "frivola" Irene Brin fu profetessa e ambasciatrice del
made in Italy che rivaleggiò e anche vinse la concorrenza di Parigi, fra l'altro dalla cattedra di responsabile italiana di
Harper's Baazar, la rivista che ha dettato il gusto di un'epoca. E la politica, la storia? Nessun impegno né disimpegno, solo verificarne le conseguenze nella vita quotidiana. È azzardato considerare Irene Brin la versione femminile di Ennio Flaiano? Nella sorprendentemente esatta Prefazione, Concita De Gregorio, ricordando una frase di Franca Valeri, che un tempo alla radio faceva il verso alla Contessa Clara, mentre Alberto Sordi si spacciava per il Conte Claro, ha parlato della «rivoluzione delle buone maniere. Sembra una cosa da niente, no? E invece è tutto lì: prima del principio di responsabilità individuale viene la buona educazione. Il rispetto, il limite, l'ascolto, il senso del proprio dovere e qualche norma igienica essenziale alla convivenza». Ma lasciamo la parola a Irene Brin, alla voce «Miele» del suo
Dizionario, che ho sempre trovato irresistibile: «Impiccioso e difficile a mangiarsi, il miele va tolto, con un solo e magistrale colpo del cucchiaio comune, dal comune barattolo, che troneggia in mezzo al tavolo della prima colazione. Poi, sul piatto individuale, va trattato con il cucchiaio individuale e, a piccolissime quantità, sistemato sul pane e burro. Potete, volendo, usare anche il coltello per l'operazione della spalmatura. Potrete anche astenervi dal miele: resterete magri, puliti e tranquilli».