scono contemporaneamente due saggi che affrontano, tra altre cose, il rapporto tra Gandhi e Tolstoj, e riproducono il loro epistolario. Si tratta di un’agile e appassionata biografia di Tolstoj, Lev Tolstoj. Il coraggio della verità di Roberto Coaloa (Edizioni della Sera, Roma), e di un saggio su Gandhi tra Oriente e Occidente scritto da Gianni Sofri (Sellerio), che a Gandhi e alla storia indiana ha dedicato studi molto importanti. Il primo porta una mia prefazione e mi limito dunque a segnalarlo. Il secondo ha il pregio della grandissima competenza di Sofri sull’argomento, ed è scritto con chiarezza e misura, cosa rara nei libri dei nostri accademici. Esplora la formazione politica di Gandhi tra India Inghilterra e Sudafrica, soffermandosi sugli anni londinesi. Ne viene assai netta e l’epistolario con Tolstoj lo conferma, la convinzione che Gandhi è stato, al contrario di Tolstoj, sia un profeta che un politico, e che la sua grandezza sta proprio nell’aver voluto coniugare il messaggio religioso col messaggio politico, coniugare e unificare. È morto in qualche modo di politica, ucciso da chi credeva nella violenza come connaturata al discorso politico e rivoluzionario. Tolstoj ha anche provato a farsi politico, ma, grande artista anzi immenso, per quanto rigoroso nelle sue idee non riuscì ad applicarle alla politica e all’azione, non riuscì a realizzarle sino in fondo; ha predicato e dato esempio, ma il movimento che gli è cresciuto intorno non ha inciso sulla storia russa se non indirettamente, e a vincere è stato, lui vivo, un modello di politica che non rinunciava alla violenza e anzi la esaltava: «la violenza come levatrice della storia», diceva Engels. Il modello Gandhi, che pure è stato sconfitto ed è continuamente sconfitto, dovrebbe restare l’unico frequentabile, in questi tempi nuovamente sanguinosi. Gandhi «negava l’opportunità dell’uso della violenza nei conflitti», dice Sofri, perché, oltre al resto, «il suo impiego tende a portare alla ribalta uomini violenti e autoritari che continuano a esercitare la violenza a vittoria ottenuta; comporta inoltre segretezza, falsità, unilateralità, semplificazioni eccessive della verità» e non favorisce «lo sviluppo di un tipo di uomo migliore, altruista e disinteressato, libero e tollerante». Abbiamo bisogno di una politica che ripudi l’uso della violenza, ma pur sempre di politica. Di Gandhi, più che di Tolstoj.scono contemporaneamente due saggi che affrontano, tra altre cose, il rapporto tra Gandhi e Tolstoj, e riproducono il loro epistolario. Si tratta di un’agile e appassionata biografia di Tolstoj, Lev Tolstoj. Il coraggio della verità di Roberto Coaloa (Edizioni della Sera, Roma), e di un saggio su Gandhi tra Oriente e Occidente scritto da Gianni Sofri (Sellerio), che a Gandhi e alla storia indiana ha dedicato studi molto importanti. Il primo porta una mia prefazione e mi limito dunque a segnalarlo. Il secondo ha il pregio della grandissima competenza di Sofri sull’argomento, ed è scritto con chiarezza e misura, cosa rara nei libri dei nostri accademici. Esplora la formazione politica di Gandhi tra India Inghilterra e Sudafrica, soffermandosi sugli anni londinesi. Ne viene assai netta e l’epistolario con Tolstoj lo conferma, la convinzione che Gandhi è stato, al contrario di Tolstoj, sia un profeta che un politico, e che la sua grandezza sta proprio nell’aver voluto coniugare il messaggio religioso col messaggio politico, coniugare e unificare. È morto in qualche modo di politica, ucciso da chi credeva nella violenza come connaturata al discorso politico e rivoluzionario. Tolstoj ha anche provato a farsi politico, ma, grande artista anzi immenso, per quanto rigoroso nelle sue idee non riuscì ad applicarle alla politica e all’azione, non riuscì a realizzarle sino in fondo; ha predicato e dato esempio, ma il movimento che gli è cresciuto intorno non ha inciso sulla storia russa se non indirettamente, e a vincere è stato, lui vivo, un modello di politica che non rinunciava alla violenza e anzi la esaltava: «la violenza come levatrice della storia», diceva Engels. Il modello Gandhi, che pure è stato sconfitto ed è continuamente sconfitto, dovrebbe restare l’unico frequentabile, in questi tempi nuovamente sanguinosi. Gandhi «negava l’opportunità dell’uso della violenza nei conflitti», dice Sofri, perché, oltre al resto, «il suo impiego tende a portare alla ribalta uomini violenti e autoritari che continuano a esercitare la violenza a vittoria ottenuta; comporta inoltre segretezza, falsità, unilateralità, semplificazioni eccessive della verità» e non favorisce «lo sviluppo di un tipo di uomo migliore, altruista e disinteressato, libero e tollerante». Abbiamo bisogno di una politica che ripudi l’uso della violenza, ma pur sempre di politica. Di Gandhi, più che di Tolstoj.