NON TOGLIETE IL CROCIFISSO
Così scriveva Natalia Ginzburg sull'Unità, il 22 marzo 1988, ribellandosi a una delle tante richieste di eliminazione del crocifisso dai luoghi pubblici, sulla scia di un secolarismo aggressivo che vorrebbe cancellare i simboli umani e storici in una sorta di anelito al vuoto, all'assenza, al grigio indistinto. È la deriva lunga dell'ansia giacobina della Rivoluzione francese che mutilava le teste alle statue delle cattedrali, senza accorgersi di decapitare la propria storia. Alla fine rimarrebbe una cultura del tutto incolore, asettica, liofilizzata, fondata sul nulla, che è inoffensivo perché appunto inesistente.
Quel segno che ha cambiato il mondo, che proclama l'uguaglianza di tutti, che raggruma in sé il dolore dell'umanità, che è un indice puntato contro le ingiustizie del potere non è forse una lezione da spiegare più che una voce simbolica da far tacere? Ma, collegandoci alla ben nota vicenda infine positivamente risolta in appello dalla Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo, vorremmo aggiungere alle parole della Ginzburg quelle di un importante studioso come Carlo Ossola nel suo Il continente interiore (Marsilio 2010): «Rimuovere un crocifisso lascia, sulla parete, la propria sindone di orli grigiastri, una croce di bianca assenza nell'intonaco del muro. La prossima sentenza sarà, dunque, contro l'inquietante Presenza dell'Ombra».