Avevi i capelli neri, mossi, onde di un mare lucente. I grandi occhi scuri spiccavano sul pallore del viso sottile. Eravamo sorelle, ma non ci somigliavamo per niente: io prepotente, tu mite, gentile.
Mi hai lasciato così presto che la tua faccia nei miei ricordi è come leggermente sfocata. Ti rivedo alta accanto a me, di sei anni più grande, o seduta accanto, al tavolo della cucina, a fare i compiti. Mi insegnavi a leggere, a scrivere. Mi inseguivi, nei primi pomeriggi di sole, quando con la mia Ferrari rossa a pedali mi accompagnavi a fare il giro dell’isolato, sul marciapiede. E sempre io promettevo di andare piano, e sempre invece premevo forte sui pedali, urtando i passanti, e tu mi rincorrevi: “Marina!” – sento ancora la tua voce.
Saresti stata un’adolescente nel vortice del 1968. Forse ne saresti stata presa, forse anche tu avresti percorso Milano, i capelli al vento, in quei cortei fiammanti di ribellione.
Ma il tuo grembiule nero di ginnasiale è rimasto in un armadio. E tu, sei rimasta per sempre bambina. Quanto, crescendo, ti ho ostinatamente, cocciutamente, cercato, e mai: mai nulla, mai un cenno, nemmeno in sogno.
Forse solo adesso ho capito: sei stata sempre con me, accanto, come quando mi insegnavi l’alfabeto. Non te ne sei mai andata. Per questo non ti trovavo, cercandoti fuori.
© riproduzione riservata