Il tempo non è l’avversario con cui più sentirsi a proprio agio sul ring, dato che in fondo ben sappiamo che sarà lui, alla fine, a vincere. Anche noi siamo fatti di tempo, siamo impastati della sua argilla, ci percepiamo come attraversati da substrati temporali in tensione, da tempi di natura differente che, a modo loro, ci misurano e ci spiegano. Siamo un istante in transito fra passato, presente e futuro. Ma del tempo noi sappiamo soltanto una briciola. Questa coscienza ci sfida a guardare con occhi riconciliati a ciò che ignoriamo.
Ho riletto nei giorni scorsi il discorso che Wisława Szymborska pronunciò alla cerimonia di consegna del Nobel, nel 1996. All’epoca non mancarono i commenti che si era trattato del discorso più corto mai ascoltato dall’Accademia Svedese, ma la verità è che la sapienza che esso mostra è enorme. Che cosa propone Szymborska? L’elogio del «non so». Ricorda che i dittatori, i fanatici e i demagoghi di ogni specie «sanno, e ciò che sanno gli basta una volta per tutte». Quello che non sanno, però, è che quando la conoscenza cessa di produrre nuove domande perde quella temperatura che conserva in sé il torrenziale flusso della vita. Così la scrittrice controbatteva: «Per questo apprezzo tanto due piccole paroline: “non so”. Piccole, ma alate. Parole che estendono la nostra vita in territori che si trovano in noi stessi e in territori in cui è sospesa la nostra minuta Terra».
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