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Non riposa mai la fabbrica degli ostaggi nel Sahel

Mauro Armanino martedì 3 aprile 2018
Adesso nel Sahel gli ostaggi sono loro. Usati con perizia e poi immessi sul mercato, i migranti hanno sostituito prigionieri ben più importanti e famosi. La fabbrica degli ostaggi non è nuova. Nel Sahel aveva funzionato bene per anni. Tecnici di multinazionali, turisti, antropologi, contrabbandieri e passanti. Ad ognuno il suo ostaggio e per tutti il prezzo del riscatto. Si sono finanziati anche così gruppi armati e assimilate filiere terroriste utili al sistema. Ostaggi pregiati, commerciabili e di matrice occidentale, di gran lunga più redditizi di quella locale. Gli ostaggi occidentali – proprio come avviene per i lavoratori specializzati, i tecnici, gli esperti e i calciatori – sono molto più appetibili. Ora nel Sahel si fabbricano migranti irregolari, che poi sono l'ultimo ritrovato della tecnica. Ostaggio si chiama chiunque venga detenuto come pegno o garanzia. Si dice di una persona sequestrata da criminali allo scopo di ricevere denaro o altro in cambio della sua liberazione. Nel Sahel gli ostaggi sono i migranti.
Non è mai troppo tardi. Era più semplice di quanto si pensasse. La presa degli ostaggi passa inosservata e, anzi, si cammuffa da "corridoi umanitari", operazioni di evacuazione e centri di addestramento profughi. I migranti del Sahel, tra gli altri, sono oggetto di particolare attenzione e riguardo. Ostaggi delle politiche che impongono frontiere a geometrie variabili e dispositivi di esternalizzazione del diritto internazionale. Basta disegnare una linea sulla sabbia, arredarla di filo spinato, registrarla al catasto del deserto e, infine, dichiarare illegali quelli che la passeranno. La fabbrica degli ostaggi si costruisce con accordi bilaterali, convenzioni regionali e soprattutto incentivi economici. Persone irregolari perché illegali, come un prodotto clandestino della mobilità umana e dunque in balìa delle definizioni che faranno di loro un soggetto ideale. I primi ostaggi ufficiali nel Sahel risalgono al 2003 e si trattava di 32 turisti europei nella sabbia del Sahara. L'anno seguente fu il turno di altri due turisti e un diplomatico canadese dell'Onu, il suo assistente e l'autista.
Una buona parte dei migranti sono "presi in ostaggio" da agenzie umanitarie che, grazie a loro, prosperano a dismisura. "Ostaggi" dei programmi di accompagnamento, formazione, rientro assistito e, i più fortunati, godono di un fondo di primo reiserimento. A questo servono i centri di accogliente e precaria permanenza finalizzata al ritorno in patria dalle statistiche da presentare ai donatori. Le cifre sono ostaggi tradotti in programmi di riaggiustamento strutturale della società perché tutto cambi senza che nulla si trasformi. Certe Organizzazioni, chiamate "non governative", degli "ostaggi" sono ormai il baluardo, la narrazione e soprattutto gli indiscussi portavoce. Un tanto a testa e si ricomincia con un altro progetto perché gli ostaggi si moltiplicano a piacimento nei progetti del mercato umanitario. Moduli, impronte, distribuzione viveri, tagliandi, bollini, gestione dei traumi da migrazione e infine l'intervista risolutoria con gli specialisti. Nel 2016, furono rapiti una religiosa colombiana, una protestante svizzera e una coppia australiana.
Sono presi in ostaggio dal mare, dal deserto e dal futuro che spesso assomiglia al passato. Ostaggi provvisori di navi, camion, militari, mafiosi, trafficanti e pompieri della storia. Chi afferma cheil Sahel non è industrializzato, poco conosce di questa zona del mondo. Le fabbriche di ostaggi si moltiplicano in proporzione ai regimi dittatoriali e al libero mercato delle ricorrenti carestie stagionali. I piani di sviluppo di questa industria prevedono benefici sempre maggiori per gli azionisti. Le basi militari ne assicurano la sicurezza, i giornalisti il funzionamento e gli ostaggi sono garanzia di mano d'opera. Solo la diserzione o l'ammutinamento degli ostaggi potrebbe ridurre il numero di fabbriche con gran danno del turismo umanitario.
Niamey, aprile 2018