Non mi hanno mai convinto quei filosofi (Heidegger in testa) che si riempiono la bocca e riempiono la testa di chi li legge con la parola “tecnica”, più spesso “techne”, in greco, e definiscono la nostra “età della tecnica”. Solo che tecnica è tutto: l'aratro, il tornio di un vasaio, una locomotiva a vapore, la bomba atomica, lo smartphone. L'idea di tecnica spiega l'homo sapiens, l'homo faber, la cultura umana fuori dall'Eden, il lavoro e la produttività. Non spiega però la sovrapproduzione di tecniche, la bulimia tecnologica, la dipendenza e l'asservimento alle macchine, ai dispositivi, agli strumenti che dovrebbero aiutarci a raggiungere un fine che abbia significato e valore, mentre da tempo il rapporto è rovesciato: è il mezzo a creare il fine. Anche se il fine non c'è, si crede che ci sia. Non è la tecnica a guidare il processo, ma il mercato: la necessità di vendere, di indurre nuovi bisogni e consumi e di provocare all'infinito crescita economica. Non c'è bisogno di Marx per capire che la tecnica e l'incremento tecnologico sono al servizio del capitalismo. La parola è in disuso per una precisa ragione: perché fa venire in mente le idee di rivoluzione e di comunismo, che sembravano il solo rimedio ai mali che il capitalismo produce. In realtà Marx era innamorato del capitalismo come Achab della balena bianca. Solo che voleva il capitalismo senza i suoi inconvenienti e dava a questo il nome di comunismo. Voleva il capitalismo senza lo sfruttamento del lavoro, le catene di montaggio senza l'alienazione.Un giorno sì e uno no, sui giornali si leggono allarmi per la dislessia dei “nativi digitali”, per un prossimo futuro in cui tutti gli organi potranno essere trapiantati, per l'informazione divenuta rumore di fondo, per il web che minaccia psiche e cervello. Intanto è in corso una guerra fra Apple, Google, Amazon, Facebook: “l'intelligenza mobile cambierà tutto”, si dice. Ancora e per sempre? Questa non è tecnica, è capitalismo telematico post-umano.