Che in Italia non ci sia nulla di più definitivo di ciò che doveva essere provvisorio è una tesi che spesso rispecchia soltanto un luogo comune. Ma nel caso della legge sugli enti locali, la n.56 del 7 aprile 2014, questa beffarda formula – variamente attribuita e forse di origine francese – ha trovato un’applicazione veramente singolare. La legge Del Rio (ribattezzata così dal nome dell’allora ministro competente) era nata per disciplinare in anticipo e in via transitoria uno degli effetti della riforma costituzionale del governo Renzi, vale a dire l’abolizione delle Province. Si dà il caso che però, com’è ampiamente noto, quella riforma non sia arrivata al traguardo finale causa referendum. Con il risultato che la legge 56, pur non essendo in sé un provvedimento bislacco, si è ritrovata a operare in un contesto completamente diverso da quello per cui era stata concepita, diventando nei fatti l’ennesima incompiuta. Le Province sono rimaste in piedi (vedi art.114 della Costituzione), senza più elezione diretta dei loro vertici (sono i sindaci e i consiglieri dei Comuni interessati a provvedere), con competenze ridotte (ma comunque significative almeno in materia di scuole e strade) e drastici tagli ai finanziamenti. Discorso tutto sommato analogo per le (quasi equivalenti) Città metropolitane, con una fondamentale differenza nell’assetto di vertice: il sindaco di queste ultime, infatti, è automaticamente quello della città capoluogo. Una sfasatura su cui la Corte costituzionale ha già recapitato un avviso preliminare.
Adesso, mentre le Regioni a statuto speciale si muovono autonomamente, la questione delle Province è tornata all’attenzione del Parlamento. Se ne sta occupando in particolare la Commissione affari costituzionali del Senato che è al lavoro per coordinare le proposte presentate da quasi tutti i gruppi, per lo più orientate a reintrodurre l’elezione a suffragio universale dei presidenti e dei consigli. È una sorta di nemesi storica perché le Province sono state uno dei primi e principali bersagli dalla rivolta contro la “casta” in quanto considerate dei poltronifici inefficienti, degli inutili doppioni, ecc. Nessuno nega che ci fossero anche sprechi e disfunzioni, ma ora ci si rende conto che i tagli alle indennità di carica hanno prodotto un risparmio risibile (26 centesimi per ogni cittadino secondo i calcoli dell’Unione delle province italiane), che i 12mila dipendenti trasferiti in Ministeri e Regioni si sono ritrovati spesso a percepire stipendi superiori a quelli di prima e che strade e strutture scolastiche denunciano enormi lacune sul piano della manutenzione. E se l’Upi potrebbe essere considerata di parte, argomenti non dissimili sono stati utilizzati dalla Corte dei Conti in una nota depositata in Senato presso la Commissione citata. Precisato che i costi del ritorno all’elezione diretta non avrebbero ripercussioni significative «nell’ambito delle grandezze di finanza pubblica», la magistratura contabile ha osservato che i tagli alle risorse «si sono riverberati negativamente sui servizi ai cittadini» e ha affermato che occorre rivedere «l'assetto del governo locale» nel suo complesso, «riconsolidando le funzioni fondamentali delle Province». Sarebbe davvero imperdonabile (e sospetto) se tutta l’operazione si riducesse al ritorno di cariche ed elezioni. Non è di questo che i nostri territori hanno bisogno.
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