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Non abbiate paura della felicità: ecco ciò che la scuola dovrebbe insegnare

Alfonso Berardinelli sabato 13 dicembre 2008
Essere felici. Questa è un'espressione che ci spaventa. Ci spaventa l'idea di essere felici per sempre, perché lo riteniamo impossibile: un desiderio proibito, irrealizzabile, chimerico, inumano. E ci spaventa anche essere felici per pochi momenti, perché in questo caso tutto finirà presto e il senso della perdita prevarrà su quello della pienezza. La felicità non si possiede, accade. Non è un bene immobile, non è alle nostre dipendenze né al nostro servizio. Ma allora? Anche la cancellazione, la rimozione dell'idea di felicità ci spaventa: dovrebbe spaventarci ancora di più, perché una vita comunque infelice, in un mondo in cui troppi sono infelici a cosa porterà? I felici possono essere indifferenti, ma gli infelici distruggono. Sia la felicità che l'infelicità hanno bisogno di certe condizioni mentali e fisiche. Ma anche di per sé sono contagiose. In una stanza o in una città in cui alcuni o molti sono infelici, è più difficile essere felici.
Nel numero 5 della rivista Vita e pensiero leggo su questo tema tre interventi di Michele Lenoci, Salvatore Natoli e Fulvio Scaparro, i primi due docenti di filosofia, il terzo psicoterapeuta. Ci si rende subito conto che la felicità è un problema morale, psicologico, filosofico, sociale, estetico, politico, religioso assolutamente centrale. Ma soprattutto un problema censurato. Lenoci apre citando una canzone di alcuni anni fa: «A scuola i professori non ci chiedevano mai se eravamo felici» e osserva che nel pensiero del '900 si è parlato troppo poco di felicità, mentre dagli Stoici agli Epicurei, da Sant'Agostino a Kierkegaard, da San Tommaso a Marx e Nietzsche le idee di realizzazione di sé, di autenticità e di società giusta avevano come scopo la felicità. I tre interventi potrebbero essere lungamente discussi. Natoli associa la felicità alla capacità di portare a compimento e di cogliere il presente. Scaparro cita Leonardo e la gioia di percepire il passaggio fra luce e buio, quiete e angoscia. Io mi limito a dire che ogni giorno di scuola dovrebbe produrre almeno un momento di felicità. Chiedersi come è il principio di ogni cultura.