Noi, sempre più ostaggi di servizi e app digitali
Mentre in Italia si dibatte giustamente dell'app Immuni e delle sue implicazioni sulla privacy, in America la società ZecOps ha denunciato una falla di sicurezza che riguarda tutti i cellulari Apple. «Si trova nell'app mail preinstallata sugli iPhone e permette a un utente malintenzionato di rubare facilmente dall'esterno dati dal dispositivo».
Nelle stesse ore, la società Cyble ha annunciato di avere acquistato sul dark web da un hacker «i dati di 267 milioni di utenti di Facebook per 500 euro».
Potremmo andare avanti per molto, perché purtroppo non c'è giorno nel quale nel digitale non si registri un grave furto di dati, una falla di sicurezza o un problema di privacy su un'app o un servizio. Non si salva nessuno: da Apple a WhatsApp, da Facebook a Twitter sono tutti vulnerabili. Anzi: siamo tutti vulnerabili, visto che quei dati sono i nostri dati.
C'è anche un secondo aspetto, non meno inquietante. Stiamo diventando tutti ostaggi di alcuni servizi digitali che usiamo. L'ha svelato Just Delete Me. È un sistema molto semplice e veloce per verificare quanto sia facile (da molto a per niente) cancellare il proprio profilo da alcuni dei più popolari servizi digitali che usiamo tutti i giorni. Sono stati tutti divisi in quattro categorie: facile, medio, difficile, impossibile. Tra i servizi dai quali è molto difficile cancellarsi ci sono quelli di Adobe, AliBaba, Amazon, Fitbit, Groupon, ma anche il New York Times, Paypal, Skype, Ticketmaster e Tripadvisor. Moltissimi sono anche i servizi dai quali di fatto è impossibile cancellarsi. Tra questi ci sono Barnes & Noble, cioè il più grande venditore al dettaglio di libri degli Stati Uniti, il gioco Call of Duty, il corriere Dhl, il sito di viaggi Edreams, la piattaforma video Netflix, il social Pinterest, il network della Playstation, la caffetteria Starbucks e persino Wikipedia e YouTube.
Insomma, siamo «prigionieri del digitale». O almeno di molti suoi servizi.
Com'è possibile che accada questo? La colpa, purtroppo, è anche nostra. Di ognuno di noi. Che accettiamo qualsiasi clausola contrattuale di un servizio, un'app e di molte altre cose senza averla mai letta. Fingiamo che non sia un problema. E che se un problema esiste, qualcun altro (lo Stato, l'Europa, gli «sceriffi del web») dovrà occuparsene per noi. Pensiamo: non mi interessa, tanto io non ho niente da nascondere. Come ha fatto notare Edward Snowden, l'ex informatico della Cia che con le sue rivelazioni ha dato il via al Datagate (ricordate lo scandalo sulla sorveglianza di massa messa in atto da alcuni governi all'insaputa dei cittadini?), «affermare che non si è interessati al diritto alla privacy perché non si ha nulla da nascondere è come dire che non si è interessati alla libertà di parola perché non si ha nulla da dire».
È uno dei paradossi di questo nostro tempo: ci agitiamo tra due opposti, ugualmente eccessivi. Da una parte c'è chi vorrebbe vietare tutto, dall'altra che chi crede (sbagliando) di non avere nulla da nascondere. E il paradosso è che spesso se ne parla troppo e più da un punto di vista emotivo che non razionale.
Basta, per esempio, una ricerca su Google per scoprire che il termine «privacy» appare in 8 miliardi 490 milioni di pagine. Poco lontano dalla parola «love» (amore) presente in 10 miliardi e 590 pagine e quattro volte più popolare della parola «God« (Dio) che appare in poco più di 2 miliardi di pagine. Ma quest'enorme popolarità della parola privacy non è un bene. Perché ormai abbiamo imparato sulla nostra pelle che più ripetiamo certe parole e più le consumiamo, facendo loro perdere forza e trasformandole in un suono, prima che in un significato. Non so se abbia totalmente ragione Confucio, ma un'antica massima che viene attribuita a lui sembra scritta oggi: «Quando le parole perdono significato, il popolo perde la libertà».