Già in Platone si può leggere che, quando le madri vogliono addormentare i figli irrequieti, li cullano tra le braccia senza mai fermarsi. E non stanno in silenzio, ma cantano, e fanno uso anche del movimento e della danza. Il cullare addensa il movimento. Con il suo alternarsi di andate e ritorni, con il suo distanziarsi e riavvicinarsi, con quella reiterazione cadenzata, il cullare disegna un oscillare cosmico, simile a quello sperimentato nella pancia della mamma e a quelli che troviamo espressi nelle cosmogonie e nei racconti della creazione. Questo oscillare è accompagnato da una forma particolare di canto, che possiede un effetto ipnotico simile a quello delle antiche formule di incantesimo. In questo senso, è curioso constatare come “ninnananna” venga dal latino nenia, che si riferisce tanto alla formula magica come al lamento funebre. L’oscura passività che sperimentiamo nel sonno ha qualcosa che mimetizza quell’altro sonno che è la morte. Non meraviglia che il campo semantico delle ninnenanne e quello delle elegie abbiano punti di coincidenza. Le ninnenanne servono però a esorcizzare la paura, a far indietreggiare la morte e a contagiare il bambino di un rassicurante messaggio di vita, anche se il bebè non percepisce il significato di quelle frasi sussurrate con estrema lentezza. Ma la dolcezza con cui vengono proferite è deliberatamente pensata per confortare.
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