Con il settimo e ultimo turno in programma venerdì 1° giugno l’India si appresta a concludere la lunga maratona elettorale iniziata il 19 aprile per il rinnovo del Lok Sabha, la camera bassa del parlamento federale di New Delhi dalla cui maggioranza dipende l’elezione del primo ministro. L’India è la più popolosa democrazia del mondo e portare alle urne 950 milioni di persone non è un’operazione banale. Per sei settimane le macchine che registrano il voto e lo spiegamento di forze di sicurezza necessario si spostano di distretto in distretto, dall’Himalaya fino al Tamil Nadu. Quest’anno, poi, a complicare le cose ci si è messa anche l’ondata eccezionale di caldo che ha colpito buona parte del Paese con temperature arrivate a sfiorare i 50 gradi. Al punto che l’arcivescovo di Mumbai, il cardinale Oswald Gracias, nel ricordare ai cattolici l’importanza di andare a votare, ha anche raccomandato di andarci «alla mattina presto» proprio per evitare le lunghe code sotto il sole. Un altro porporato indiano, l’arcivescovo di Goa Felipe Neri Ferrao, si è trovato invece a rivolgere un invito un po’ inconsueto: ha suggerito di non prendere in un certo giorno di maggio il treno per il pellegrinaggio al santuario mariano di Velankanni perché c’era il rischio di non riuscire a rientrare in tempo per l’appuntamento con le urne a Goa, la città del Sud dell’India dove è sepolto san Francesco Saverio e dove la comunità cattolica è numericamente significativa. Sono solo due esempi che dicono la grande attenzione con cui le Chiese dell’India attendono l’esito di questo voto. Indipendentemente dal giorno in cui si è andati ai seggi, i risultati verranno annunciati tutti in contemporanea il 4 giugno. Ed è estremamente probabile un nuovo successo del Bharatiya Janata Party, il partito nazionalista indù di Narendra Modi che a 73 anni si appresterebbe così a iniziare il terzo mandato consecutivo come premier dell’India, Paese che governa dal 2014. Ma sarà importante anche la misura della sua vittoria e quello che potrà dire sul delicatissimo tema del rapporto tra la maggioranza indù e le altre minoranze religiose. Le statistiche del censimento (fermo al 2010 in India) parlano di una popolazione composta per il 79,8% da indù, per il 14,2% da musulmani e per il 2,3% da cristiani. Nonostante questi rapporti di forza, i nazionalisti indù da tempo sbandierano lo spettro identitario delle cosiddette “conversioni forzate”, prendendo di mira – oltre alle comunità islamiche – anche le attività educative promosse dalla Chiesa al servizio dei dalit (i cosiddetti fuori casta) e dei tribali (le popolazioni aborigene non indù che vivono nelle aree forestali, spesso ricche di risorse che fanno gola ai grandi gruppi industriali indiani).
In occasione di una giornata di digiuno e preghiera in vista delle elezioni, tenutasi nello scorso mese di marzo, la Conferenza episcopale indiana denunciava «atteggiamenti divisivi, discorsi di odio e movimenti fondamentalisti che erodono l'ethos pluralista che ha sempre caratterizzato il nostro Paese». In gioco c’è l’impronta della nuova India, quella che cresce nei suoi mercati, nelle sue infrastrutture, nelle sue ambizioni geopolitiche. Ma rischia di farlo perpetuando antiche ingiustizie ed esclusioni. Proprio per questo, nel suo appello agli elettori, il National United Christian Forum, che riunisce tutte le confessioni cristiane del Paese, ha scritto: «Ascoltiamo le diverse prospettive, cerchiamo un terreno comune e lavoriamo per costruire una società che sia inclusiva e che faccia crescere tutti». La vera sfida anche per l’India che Modi incarna passa da qui.
© riproduzione riservata