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Nella «fragilità» di Dio il segreto della vita

Ermes Ronchi giovedì 22 maggio 2008
Domenica dopo la Trinità
Santissimo Corpo e Sangue
di Cristo - Anno A

In quel tempo, Gesù disse alle folle dei Giudei: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Una parola scorre sotto tutte le parole di Gesù, come una corrente sotterranea, una nervatura delle pagine: «vita». Che hai a che fare con me, o carne e sangue di Cristo? La risposta è una pretesa perfino eccessiva, perfino sconcertante: io faccio vivere! Incalzante certezza da parte di Gesù di possedere qualcosa che inverte il corso della vita, orientandola non più alla morte ma all'eternità.
La sorpresa è che Gesù non dice: «Prendete di me la mia sapienza». Non dice: «Bevete la mia innocenza, mangiate la santità, la divinità, il sublime che è in me, la giustizia assoluta, la potenza illimitata». Dice invece: «Prendete la fragilità, la debolezza, la precarietà, il dolore, l'intensità di questa mia vita». Il mio Dio è così, conosce i sentimenti, sa la paura e il desiderio, ha pianto, ha gridato i suoi perché al cielo, è stato rifiutato dalla terra. Per questa sua fragilità è il Dio per l'uomo, con il suo dolore è il Dio per la vita mia fatta di germogli amari. Quasi un Dio minore, ma è solo così che diventa il «mio» Dio. Non si può giungere alla divinità di Cristo se non passando per la sua umanità, carne e sangue, corpo in cui è detto il cuore, mani che impastano polvere e saliva sugli occhi del cieco, lacrime per l'amico, passioni e abbracci, i piedi intrisi di nardo, la casa che si riempie di profumo e di amicizia, e la croce di sangue.
I verbi ripetuti quasi in una incantatoria monotonia " mangiare, bere " sono innanzitutto il linguaggio della liturgia del vivere, di una Eucaristia esistenziale, della comunione totale con Cristo. «Nella comunione il cuore assorbe il Signore e il Signore assorbe il cuore, così i due diventano una cosa sola» (Giovanni Crisostomo). E tu sei fatto vangelo. E se sei fatto vangelo senti la certezza che l'amore è più vero dell'egoismo, la pietà più umana del potere, il dono più divino dell'accumulo.
Io mangio e bevo il mio Signore, quando assimilo il nocciolo vivo e appassionato della esistenza di Gesù e mi innesto sul suo tronco che è il suo modo di vivere. Chi fa proprio il segreto di Cristo, costui trova il segreto della vita. A questo mi conduce l'Eucaristia domenicale, dove il sublime confina con il quotidiano, l'infinito con il perimetro fragile del pane e del vino, là Dio è vicino a me che temo la solitudine e il dolore. Se solo lo accolgo, trovo il segreto della vita.
(Letture: Deuteronomio 8,2-3.14b-16a; Salmo 147; 1 Corinzi 10,16-17; Giovanni 6,51-58)