«La bellezza si misura dalla profondità delle rughe». Non sono persuaso che “ruga” sia una traduzione eccellente. Il termine adoperato dai Cormoranis – dunam – designa anche le macchie della pelle, i capelli bianchi, le nodosità, le cicatrici, la corteccia degli alberi centenari, insomma tutti gli appassimenti dell'età, e può peraltro significare “ideogramma”. La vecchiaia è dunque una scrittura, mentre la gioventù, con la sua pelle troppo liscia, presenta solamente pagine bianche. Namandu non ha ancora cominciato la sua opera. Qui ho visto ragazze bellissime, davanti alle quali anche il mio voto di castità non è rimasto insensibile. Carne soda, colorito fresco, curve perfette sulle quali gli occhi andavano su e giù come in altalena. E nonostante tutto questo fascino, esse non avevano il consenso riservato alle vecchie sdentate. Per i Cormoranis è evidente: l'epidermide scolorita, plissettata, screpolata, pergamenata, ha qualcosa di più trascendente e la nostra voglia di distogliere lo sguardo ne era la prova. I seni cadenti, gli occhi da pesce lesso, la bocca screpolata attorno a un buco puzzolente, la schiena pronta per essere cavalcata dal quarto cavaliere dell'apocalisse, tutta questa carne avariata non eccita certo la libidine ma invita proprio al di là dello stupido appetito sessuale, fino all'abbraccio del Destino: Namandu, il loro sommo dio, il cui il nome rimanda alla Morte, al Tempo e a Ciò-che-divora-le apparenze. C'è anche un dio inferiore, che si abbassa a creare degli esseri giovani e belli: Zamdu, l'ingenuo. Il suo compito è di fornire il materiale vergine. Perché è Namandu il grande scultore. Namandu che con lo stiletto traccia nell'argilla segni sconvolgenti. Namandu che ha l'ultima parola. Un uomo giovane che sposa una donna molto vecchia mostra così la sua saggezza. Conosce i piaceri del bibliofilo. Ama “oltre le illusioni”, il vero senso dell'amare secondo i Cormoranis. Le sue carezze ricercano il cuoio delle vecchie rilegature e decifrano il braille della fatalità. La sua sposa morrà sicuramente prima di lui, come una scolta. Dopodiché, potrà risposarsi con una giovane, che avrà a sua volta il compito di ammirarlo fino al sepolcro. Ogni tanto vengono al mondo dei bambini. Ai Cormoranis i bambini appena nati piacciono esattamente a causa del loro viso sgualcito. Il loro attaccamento diminuisce non appena diventano rosa e paffuti. Allora, li si educano affinché possano occuparsi dei vecchi e diventare essi stessi una buona creta per l'arte di Namandu. Gli uomini robusti camminano sulle strade del villaggio a testa bassa. La pienezza delle forze e la padronanza di sé son disprezzate. Sanno troppo di sufficienza. Ci imprigionano nel nostro piccolo potere, ci vietano di andare più lontano dei nostri progetti. Ho discusso con un fusto che spaccava legna con energia e precisione. Meno male che quelle fascine servivano a scaldare i vecchi, altrimenti avrebbe avuto solamente vergogna del suo vigore. Mi ha confidato: «Aspetto con impazienza l'ora del declino». Perché all'ora del declino, a regnare non è più la sua volontà ma la volontà di Namandu. Sembra che il corpo si sfasci; in verità, si offre al dio, entra nella grande passività. L'assembramento al quale avevamo assistito nella cerchia megalitica era in qualche modo un campionato di passività. Altri non vi avrebbero visto altro che un mortorio; i Cormoranis ci vedevano uno stadio dove si praticavano il lancio dell'anima e il pugilato con l'angelo. «C'è di molto meglio», c'informò un Cormoranis. Potevamo prepararci legittimamente al peggio. Ci condusse a un luogo chiamato “La Piantagione”. Là risiedevano gli “eletti”: una serie di vecchi mantenuti in verticale per mezzo di tutori e di cinghie, tutti ancora vivi, ma tutti comatosi. Come potevano quegli uomini così primitivi esser giunti a una simile tecnologia? Grazie alle liane cave di certe piante e al succo di un tipo di canna da zucchero, avevano sviluppato un sistema di alimentazione per sonda. Un sistema che non era tuttavia pensato come transitorio, nell'attesa del ritorno a una vita normale. Si trattava di entrare e restare in coma il più a lungo possibile, diventare infine un prodigioso ortaggio del campo di Namandu. I Cormoranis non considerano la coscienza come un grande beneficio. A che serve sapere, se è per scoprire che c'è sempre di più da imparare? A che serve deliberare, se non si è mai essere sicuri di avere fatto la buona scelta? È meglio la tranquillità dei vegetali. È meglio far parte della Piantagione. Del resto una sola parola significa “vecchio”, “perfetto” e “albero con palme”. Mentre la parola “giovane” serve anche per “larva brulicante”. Lo sottolineai con tutte le mie forze: per la sua natura divina, il Cristo è eterno e vive nei secoli dei secoli. I Cormoranis lo classificavano insieme alle larve brulicanti. Mi tacciarono anche di essere un «povero ragazzotto dal dio novellino», e questo malgrado le rughe che solcano precocemente la mia fronte. In questo disastro, conobbi tuttavia una piccola gioia. Fratel Ugo era seriamente scosso. Lui che si era vantato di essere felice come cappellano di ospizi, desiderava sloggiare al più presto. Era restato disgustato specialmente quando aveva scoperto quelle che i Cormoranis li chiamano “civette”, giovani donne facevano di tutto per sembrare più vecchie. Camminavano con la schiena ricurva, si tingevano la capigliatura d'argento, si spalmavano con crema essiccante e talvolta si incidevano rughe con il coltello. Alternavano soprattutto diete ingrassanti a
diete dimagranti: speravano di moltiplicare pieghe e smagliature. Ne ho visto una che era riuscita a somigliare ad uno shar pei, quel cane cinese a cui la pelle troppo ampia cola sul muso e sui fianchi. Ma i Cormoranis non si lasciavano ingannare da tali sotterfugi. Distinguevano facilmente una vera vecchia da una fraschetta truccata da vegliarda. Avevamo fatto progressi. Per la prima volta, la tribù non ci aveva cacciati. Eravamo partiti di nostra iniziativa, sulle ali dello scoraggiamento.
(20, continua. Traduzione di Ugo Moschella)