Stavi nel banco dietro di me, al liceo. Un ragazzo del Sud, di poche parole, studiosissimo. Un figlio di immigrati a Quarto Oggiaro, quartiere allora di tute blu: ti avevano mandato al Classico, e tu ti sentivi in dovere di portare a casa tutti 8 e 9. Io, invece, non mi sentivo in dovere di niente.
Piombavo trafelata in classe, dieci minuti prima della campanella, per copiare i compiti. Nemmeno dovevo chiederteli. Non mi domandavo come mai.
Nei giorni di sciopero restavi in aula a giocare a scacchi. A volte anche con me, e senza darmi subito scacco matto, come avresti potuto. E io non mi chiedevo perché.
Perfino alla Maturità, versione dal greco, quando inciampai in un verbo incomprensibile alzai gli occhi a te, nella fila accanto: sillabai il verbo con le labbra, e tu subito, allo stesso modo, mi suggeristi la traduzione. Grazie, ti dissi poi, «Mi hai salvato». Ma non mi chiesi perché uno rischi tanto, nel suggerire alla Maturità.
Rivedo i tuoi occhi vivi, il sorriso. E io, stupida, che non capivo la tenerezza con cui mi stavi vicino. Non mi hai mai invitato al cinema, mai detto una parola che non riguardasse lo studio. Un calabrese orgoglioso. Mi osservavi serio, però, a volte, come in una domanda. Io, già corteggiata e viziata, non ci facevo caso. Vorrei abbracciarti ora che non so che hai fatto, o dove sei. Ora che capisco la limpidezza con cui mi guardavi.
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