Nei drammi romanzeschi di Shakespeare una rilettura della «buona novella»
Wystan H. Auden ha scritto una volta (in Cristianesimo e arte) che è impossibile rappresentare Cristo a teatro, perché se lo si rende drammaticamente interessante, diventa come altri personaggi mitologici o letterari, cioè smette di essere Cristo. Certamente Shakespeare lo aveva capito: o più probabilmente è Auden che lo ha capito pensando a Shakespeare. In effetti nelle opere shakespeariane più tarde la storia sacra è un pane che si spezza per nutrire storie diverse. In Lear e Cordelia ci sono la passione e la «patientia» di Gesù e di Giobbe. In Amleto c'è la meditazione sulla Provvidenza e sulla necessità di essere pronti («the readiness is all»). Infine La Tempesta, scrive Boitani, «porta un'inusitata e complessa Buona Novella. In questo dramma multiforme, metamorfico, inafferrabile (") c'è anche la predicazione di un vangelo umano». Echi biblici e favole pagane, l'Età dell'Oro e il Giardino dell'Eden convivono, come insegnava il Rinascimento italiano. Queste parabole teatrali delineano comunque «un cammino verso l'amore per Dio e per il prossimo», nella convinzione «che si può raggiungere la felicità sulla terra (") Ricongiungersi ai propri cari, riscoprirli, riconoscerli, costituisce la felicità».
Shakespeare è un mago fecondo della mescolanza e dell'ibridazione: nasconde e confonde la sua sapienza biblica seminandola in ogni angolo della vita profana, ma fa nascere così nuovi frutti.